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Esser cattolici in letteratura

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Esser cattolici in letteratura

Alcuni amici, per primo Luca Doninelli su Il Giornale e l’altro giorno su queste colonne Giuseppe Lupo, hanno riflettuto sul fatto d’esser cattolici in letteratura. Poche settimane fa un convegno è stato promosso a Firenze da Mons Betori e dalla Cei su questo tema, coordinano da don Vincenzo Arnone. Il tema dunque pare attuale. E per fortuna lo è sempre e senza possibilità di conclusione. Ci farà sempre tribolare e sarà sempre, in un certo senso, un dibattito scomodo. Per un motivo che –lo dico subito- può sembrare scandaloso.  Lo diceva un critico siculo bizzarro e geniale, Pietro Mignosi: per un uomo di fede, a differenza che per gli altri, “cattolico” non è un aggettivo che si pospone al sostantivo scrittore. Ma al contrario, “cattolico” è un connotato della natura del soggetto. Scrittore semmai è l’accidente. Questa idea naturalmente scandalizza anche quella parte di noi stessi che vorrebbe vedere nella letteratura una specie di soluzione del problema umano, una sorta di religio, di assoluto. Mentre aveva ragione Mignosi: per un battezzato, il riconoscere Cristo entrato nella propria vita, è un cambio di natura. Non ti si aggiunge un aggettivo, come per chi può essere uno scrittore verista, o fantascientifico o scrittore ateo, liberale o comunista. Lo scrittore cattolico è un tizio che sulla scena del mondo –e delle proprie storie- vede agire un protagonista “nuovo”, Gesù il Nazareno e il suo corpo ferito e vivo che è la Chiesa. Può essere un buon scrittore o un cattivo artista. Ma la differenza sta appunto a livello del suo sguardo sul reale. In un’epoca come questa, dove domina una idea e una pratica della letteratura tutta venata di valorismo morale o sapienziale (dai Coehlo ai Dan Brown maggiori e minori come Eco, dai Saviano ai Volo) se lo scrittore cattolico è un tizio che aggiunge idee o ideuzze morali o sapienziali al panorama riceverà, inevitabilmente, quella che acutamente Doninelli chiama la “riserva indiana”. Uno spazio secondo le potenzialità di mercato e secondo le concessioni del pensiero dominante. Se invece le storie e le poesie che racconta e mormora o grida parlano  veramente della vita, come voleva Baudelaire, gran cristiano, e parla dell’azione anche di un protagonista che pur molti non conoscono, Cristo, allora la sua sarà buona letteratura e anche testimonianza. Così come in altri aspetti della sua vita, per quel che può e riesce. Lo ha mostrato recentemente la storia di un importante poeta messicano, Javier Sicilia, che Time ha messo tra gli uomini “protesters” dell’anno. Autore di novelle e poesie, Sicilia è noto come autore cristiano cattolico. Quando suo figlio fu ucciso dai narcos messicani, ha iniziato –involontariamente, racconta lui- a trovarsi a capo di un movimento che si chiama “Hasta la Madre” (un metafora popolare religiosa come dire: in piedi, su) che sostiene un rinnovamento pacifico nel violentissimo Paese. Il cristianesimo non è cultura, diceva con forza un anzianissimo Carlo Bo che stranamente pochi, tra cui la rivista clanDestino, nel suo centenario han ricordato. La fede non è un aggettivo culturale. E’ uno scuotimento, una ferita, un battesimo sempre drammatico e dolcissimo della mia natura grazie all’avvento della Sua presenza. Un cambio del soggetto, non un aggettivo scomodo (o comodo) in più. Chi ha una certa natura addosso la esprime sempre, anche quando non vorrebbe o non gli conviene. Si è cristiani, cattolici anche quando si pecca, dunque anche quando si scrive. Ma appunto, amici, il nostro problema non è la letteratura. Vorrebbero che fosse così. Invece è la fede, lo sguardo a Cristo. Se non ci sono scrittori cattolici in grande rilievo –eppure non mancano qua e là, bisogna pure saperli riconoscere fuori da certi schemi che vogliono imporci- non è un problema letterario. E’ un problema di fede, e della sua adeguatezza alla vita. Più ancora che una fede coerente, disse don Giussani “provocando” in Terra Santa, c’è bisogno di una fede vivente. E perciò anche scrivente.