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Avvenire, Devono sempre arrivare lì, alle rive di Michelangelo

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Avvenire, Devono sempre arrivare lì, alle rive di Michelangelo

Devono sempre arrivare lì, alle rive di Michelangelo. Per vantarsi, e per fallire. Come diceva lui stesso, Michelangelo, della sua arte: un fallimento. Che rendeva gloria a Dio. Un precipizio che apriva a più profondo abisso. E dunque anche ora i più dotati, i più azzardanti, vogliono arrivare lì. Ma non sanno che fallimento li aspetta. Che sperdimento. Lo fanno con baldanza. Con tracotante scintillio di idee alla moda, occhieggiamenti allo scientismo, al mercato. Non sanno che fallimento li aspetta. Li divora. O meglio, pensano che si tratti di un fallimento solo “estetico”, e sottointendono che però sì, si può tentare ormai il paragone tra loro e lui.  Nuovi michelangioli. Padroni della scena. Vogliono mettere la loro gloria al centro della scena dove sta invece ancora la sua gloria rovesciata in umiliazione, la sua affranta domanda: “Che poss’io Signor s’a me non vieni con la tua usata ineffabil cortesia?”. Non sanno che il fallimento che li aspetta è totale, midollare, carnale. Oltre che artistico, o estetico. Accade stavolta a Jan Fabre, alla sua pietà cervellotica e cerebrale. Alla sua pietà che espone banalmente un cervello come sede della compassione. Va verso Michelangelo (diciamolo come i bambini: è un copione)  lo usa, ma ne viene ingoiato.  Michelangelo è una strana calamita. Come se fosse necessario comunque avvicinarsi al suo mare oscuro e cristiano. Senza di lui l’arte –anche quella odierna, soddisfatta nei panneggi della propria irrisoria e irridente gloria- non saprebbe dove andare. E dunque torna lì. Fabre ha fiuto. Sa che deve andare alla Pietà. Esaurite le risorse della ironia, del gioco e quelle combinatorie d’ogni frammentismo o virtuosismo, l’arte –quella più di moda, più ricca- deve riprendere qualche rimasuglio di energia, se vuole ritentare l’assalto. Che non è a Dio. Ma assalto all’uomo. Fosse blasfema verso Dio la pietà che Fabre e la Biennale ci offrono in pompa da corte che vuol nascondere i tarli che rodono le tende, sarebbe davvero michelangiolesca. Esposta al suo stesso fallimento grandioso. Sarebbe alla stessa altezza di scommessa. Invece no, è roba discorsiva, sociologia, traduzione facilona di qualche concetto scientista. Se fosse un assalto a Dio avrebbe almeno del suo modello la medesima infinita eloquenza. Ma questi mercanti di idee, compositori di immagini, dominatori dell’arte-discorsetto sanno che dopo milioni di loro sfregi Dio è ancora lì. Attaccarlo è fatica sprecata. La blasfemia è ormai roba da arte minore. Poiché senza avere un’alta considerazione di Dio non si riescono nemmeno a portarGli attacchi seri. Molti atti artistici che passano per blasfemi Lo trattano come se fosse un presidente di quartiere. Uno che s’offende con poco. Ci hanno messo un po’ a capirlo. A costoro di Dio non gliene frega niente perché pensano di saperlo. Problema non da artisti. Michelangelo invece no, non lo sapeva. Era cristiano perché voleva conoscere Dio, non perché lo sapesse già. E così costoro non si interessano dell’invisibile, ma dell’anatomia, quella fisica o alle diverse anatomie del vivere umano: la sociologia, la scienza, la politica. Assaltano l’uomo, lo ritraggono come un meccanismo neuronale. Se spingi un neurone esce la compassione, se un altro viene, che so, l’ira. A un’idea banale di Dio consegue sempre banalità sull’uomo. Una idea senza dramma. Come in questa “pietà” per nulla drammatica di Fabre. Pietà esibizionista. Non sanno la differenza da Michelangelo: a lui interessava Dio. Per questo seppe ritrarre l’uomo.