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Tornare alla legge, Avvenire, 05.03.2011
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Ci tocca vivere in una epoca strana. Esaltante e inquietante. Di rovesciamenti. Di nebbie. Di ricapitolazioni. Un’epoca in cui le parole elementari dell’esistenza umana sono diventate terreno di diatriba. Un’epoca in cui con le leggi non si deve solo arginare le malefatte, le delinquenze: ma con la legge si devono mettere i sacchi sabbia, rinforzare gli argini, mettere paglia e terrapieni perché non dilaghi una strano desiderio di morte. Ormai si tratta di dover riscoprire, anche attraverso il dibattito giuridico, e poi parlamentare e quindi politico, il significato di parole elementari. Ci è dato di vivere questo tempo. Può essere vissuto come una grande occasione per rimettere a fuoco le parole principali della esperienza umana.
Sono in 'crisi' (cioè in verifica, in messa alla prova) non solo le parole che indicano le più alte questioni – come Dio o destino – ma anche quelle elementari, che sono la pelle, la materia, il sangue normale della esistenza umana: la parola figlio, la parola nascita. E la parola morte. Parole intorno a cui nei millenni l’arte e il pensiero si sono incendiati di bellezza e di forza. E che sono state visitate e lette secondo infinite prospettive. Ma mai rovesciate nel loro significato essenziale. Per un ebreo, un greco o un romano, la morte – gloriosa o infame, eroica o banale – era sempre un vincere dell’ombra sulla luce, un venir meno. Una cosa indesiderabile in sé. E la cura, il prendersi carico del penare e del soffrire fino agli estremi passi è sempre stato un nobile ufficio. La morte – lungi dall’essere un atto vergognoso, nascosto, da vivere in una solitudine definitiva – era vissuta come momento dell’appartenenza a una comunità, a una civis, a una rete di relazioni piene e significative. E molto spesso è ancora vissuta così.
Ma altrettanto spesso invece ci troviamo a discutere di una morte che viene scambiata per quel che non è, invocata come liberazione in nome della legge. Ci ragiono su, come tanti. E mi rendo conto di non essere stato capito da più di qualcuno e persino da qualche titolista. Ma ciò che penso, e dico, è che oggi 'dobbiamo fare' una legge: la più equa, semplice e avveduta possibile. Dobbiamo tornare ad averla perché sul fine vita si sono mosse le azioni – forzando la legge – di chi ha voluto render la morte procurata una liberazione dell’individuo, una specie di prevalere della luce su un’ombra (la vita quando anche sofferente). Si è mosso un plotone di opinionisti. Un manipolo di magistrati. Una carovana di nuovi santoni. Per far passare la morte per quel che non è. E la persona per quel che non è: una monade, un essere irrelato, uno che non è nelle mani di nessuno, neanche nelle mani di chi lo ama, di chi lo cura, di chi ne può sostenere fatiche e attraversamenti dolorosi.