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Arte sociale, dicono

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Arte sociale, dicono

Arte sociale, dicono. E cosa intendono? Ne parlano tutti –dai famosi artisti ai curatori di rassegne e biennali, compreso la prossima di Venezia. E così pensano di dire qualcosa. Di specificare. Come se l’arte si potesse sistemare, qualificare con un aggettivo. Lei che aggettivi non sopporta mai, e ce li fa ricadere addosso. Eppure d’arte sociale parlano ovunque da Kassel a Basilea. Ma, come evidenziava l’altro giorno anche un lungo articolo su La Repubblica di G. Motta, forse questo aggettivo è una foglia di fico, un pretesto. Un trucco. Come se si usasse quell’articolo per dare consistenza al nome, come se, non sapendo più come fare a trattenerla entro i limiti di una consuetudine che certo provoca e scandalizza ma sempre meno, sempre più abitudinariamente, la chiamano, la giustificano così: sociale. Ma con il sospetto che ormai questa stesso aggettivo o foglia di fico sia consumato e non riesca più a coprire del tutto il vuoto ideativo e operativo di certe opere, per quanto osannate e –denuncianti, felici e contente- iperpagate da un mercato che risponde sempre di più a pure e affannate logiche di mercato. Il rischio lo aveva visto già lui, Charles Baudelaire, che stava ai primordi della critica d’arte moderna, e che stava nel cuore oscuro della metropoli ottocentesca, vedendo nascere l’arte cosiddetta di denuncia. Scrive: “La scuola borghese e quella socialista. Moralizziamo! Moralizziamo! gridano entrambe con una febbre da missionari…Per loro l’arte non è più che una questione di propaganda.” E approfondisce con acume: “La maggior parte degli errori intorno al bello nasce dalla falsa concezione del XVIII secolo intorno alla morale”. Di fatto, coloro che oggi si agitano sempre meno convinti e convincenti intorno al valore “sociale” dell’arte come criterio di giudizio e qualifica dell’opera sono gli eredi di tali “moralizzatori” avvistati da Baudelaire. Missionari presso società malate (ma di diagnosi spesso parziale). Non si tratta certo di nostalgici di quel che faceva lamentare anche al nostro Arturo Martini l’esser diventata la scultura “lingua morta” in quanto privata della sua funzione pubblica. “Pubblico” è ben diverso da “sociale”. L’aggettivo sociale, a mio avviso, oggi viene usato una sola funzione. Riparare, preservare dal vero rischio. Se, come scriveva H.B. Levy presentando la collezione veneziana di Pinault, l’arte è un esercizio di intelligenza che non deve occuparsi del Bello, si tratta di un esercizio che si occuperà dei problemi sociali e politici come unico orizzonte di senso del proprio gesto. Così da non correre il rischio di occuparsi del destino, dell’urlo che in noi dimora, e di mostrarsi povera, fragile nell’indagine sul significato dell’esistenza. Là dove si radica il problema stesso del bello. Insomma, l’aggettivo oggi di moda -ma in sospetta crisi- serviva a riparare l’arte dal rischio di occuparsi del livello “sacro” dell’esistenza. Ma così finisce troppe volte per apparire una variabile un po’ sofisticata di letture sociologiche e politiche già offerte da altri linguaggi e altri luoghi. Sbiadendo nel suo specifico, appannando il senso della propria esistenza, ritirandosi lontano dalla gente in propri “riti mondani” – e mondani non in quanto glamour o eleganti, ma privi di ogni tensione conoscitiva verticale. Però sta succedendo qualcosa. Sulla spinta di molte energie, tale secolarizzazione per via socio-politica dell’arte non tiene più. L’arte esprime e indaga la vita in tutte le sue dimensioni, ardenti in una ricerca di senso. Lo ha sempre fatto, e il valore sociale di un’opera non dipende dall’aggettivo. Un’arte programmaticamente “sociale” rischia di essere inutile, per paradosso, proprio alla società. Troppe le domande, le ferite, le inquietudini sul destino, sul senso del vivere e dell’amare, sull’abisso, sul morire e sul nascere che abitano il cuore e la ragione degli uomini. E degli artisti.