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Non esiste l’ateismo

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Non esiste l’ateismo

Non esiste l’ateismo. Esistono la fede o l’idolatria. Lo dimostra ancora –se ce ne fosse bisogno- il dibattito innescato da Giorgio Agamben sulla prima pagina di  Repubblica l’altro giorno. Su il Foglio Guido Vitello ieri in prima risponde tra sarcastico e duro. La faccenda in sintesi. Partendo dal significato della parola greca “pistis”, usata in ambito religioso per indicare la fede Agamben rileva che essa viene usata in greco anche in ambito bancario: è il credito. E argomenta che oggi al credito di tipo religioso –tra uomo e Dio- si è sostituita la fede-credito verso un nuovo unico Dio, il mercato finanziario, con i conseguenti “riti” religiosi: fare sacrifici, essere migliori ecc. Il Nuovo Dio era previsto già da T.S.Eliot nel finale dei suoi bellissimi Cori negli anni ’30. Sembra che gli uomini, dice il poeta, abbiano abbandonato il Dio cristiano non per un altro Dio. Ma per “l’Usura, la Lussuria e il Potere”, nuovi Dei. Vitello su Il Foglio irride alle manie teo-tragiche di Agamben e il suo pessimismo anticapitalista, riichiamando al più vasto campo delle relazioni tra linguaggio economico finanziario e di economia della salvezza. Ma il problema centrale posto da Agamben resta. Anche se con una mancanza importante. La storia come Teogonia è visione radicata nell’uomo da sempre. Dei in lotta si trovano nelle pagine più forti di tutte le letterature e nei grandi libri, compresa la Bibbia. Che esista un uomo “ateo” è sogno e incubo di poche decine di anni recenti, quando ideologie violente centrate sull’affermazione del Potere di singoli uomini o sistemi han cercato di fare fuori ogni segno di Dio. Si trattava di sostituire la devozione a un Padre nei cieli con quella a un Padrone in terra. Chi per decenni teorizzò la inevitabile “secolarizzazione” come grande vittoria specie anticattolica, si ritrova una società dove non si è smesso di credere a Dio e si è pure iniziato a credere a un po’ di tutto. Il fatto è che la fede è uno dei modi con cui l’uomo usa la propria ragione. Su questo punto Agamben non coglie il nocciolo, riducendo il credito e la fede ad atti economici o religiosi, e intendendo d’entrambi l’irrazionalità. Invece la fede, il credere certa una cosa grazie a segni e a testimonianze che la rendono credibile è un metodo razionale e frequente di conoscenza. Un metodo che l’uomo applica di continuo prestando fiducia a cose che non conosce direttamente poiché indicate da un testimone credibile, tramandate da amici, affidandosi a competenze non di certo in grado di certificare a priori. Scegliendo un medico, un professore, ma anche accettando un piatto al ristorante compiamo tanti atti conoscenza per fede. La quale non è dunque una specie di retaggio arcaico applicato a Dei antichi e ora a un Dio nuovo. In questione nella crisi non c’è dunque la fede, ma l’uso corretto della ragione, di cui la fede fa parte. Inoltre, l’uomo afferma sempre qualcosa per cui vale la pena la sua vita. Elegge un suo Dio. Può essere pure la carriera, o i soldi, o il piacere. E nel rapporto con tale Dio usa sempre momenti di fede, di conoscenza per fede. Per questo l’uomo senza fede è stata un’illusione di filosofi e di pre-potenti. C’è infine un aspetto che il cristianesimo ha proposto come novità assoluta, e che sfugge (strano?) al dibattito. Gesù non ha rivelato un Dio banchiere, esattore, a cui fare sacrifici. Ma un Padre. Chiede figli ragionevoli che si fidino di segni e testimoni usando la ragione. Il sacrificio massimo infine lo fa Lui, precipizio e culmine di amicizia. E –rovesciamento mai visto- è Dio che crede in noi. Che supplica un sì alla nostra libertà. Sono piccole note che forse possono giovare ai profondi pensatori che s’affacciano a questi tempi di crisi.