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Cosa aveva addosso Maria Zambrano?

Cosa aveva addosso Maria Zambrano?

Cosa aveva addosso Maria Zambrano? 

Questa filosofa amante dei potei e dei pittori, esule e prodigiosa lavoratrice, spirito libero e anche impertinente ? Cosa aveva addosso questa scrittrice incantata che parla di filosofia e arte e di visite a una stele funeraria d’un adolescente nei pressi di Roma, visite fatte scendendo dall’autobus e camminando (o danzando, dice) fino a pulire le scatolette, l’immondizia che rovinano il luogo sacro, bruciandole fino all’arrivo dei poliziotti ? Cosa aveva addosso che la faceva fermare sul sorriso di Monna Lisa o sulla bianchezza di Zurbaràn ? O cosa la divorava di commozione intellettuale, la muoveva a parlar della luce, in questo mondo dove gli uomini vivono in una illuminazione “sorda”, “adatta al Processo, quel processo con cui Kafka ha simboleggiato la condanna dell’uomo moderno”? 

Credo a certe coincidenze. 

Mi trovai a leggere poesie a Morella in Messico, nello stesso hotel dove la Zambrano scrisse le sue pagine di filosofia poetica. E ora che mi trovo a porgere i suoi scritti d’arte mi accorgo che quel che lei chiama scoperta che il centro della persona è quieto ma non immobile, avvenne per me là, un bel po’ di anni fa. Là, in quel luogo colorato e caotico e poi traversato da iallucinanti immobilità, capii che “la bellezza fa il vuoto (…)Ma una volta creato quel suo vuoto, la bellezza lo fa suo, perché le appartiene, è la sua aureola, il suo spazio sacro in cui resta intangibile. Uno spazio nel quale all’essere terrestre non è possibile istallarsi, ma che lo invita a uscire di sé, che spinge a uscire di sé l’essere nascosto, anima accompagnata dai sensi”.

Nei pochi giorni vissuti tra poeti grandi bevitori e ricchi di storie in  quell’albergo dove gli inservienti gentili dicevano “sì, sì” alle richieste e poi non succedeva nulla, vidi meglio che “tutto è rivelazione, tutto lo sarebbe se fosse accolto allo stato nascente”. E cosa ha dunque addosso questa donna filosofa tra i poeti e poetessa tra i filosofi ? 

Lei esule diceva: “Noi non siamo del luogo in cui siamo nati, ma di quello che ha catturato il nostro sguardo”. Ma cosa catturava il suo sguardo stupefatto di trovare nei bianchi di Zurbaran  la cosa che “nelle lezioni di filosofia ci avevano detto essere invisibile”? E cosa ferveva nella sua intelligenza curiosa che, parlando dello specchio, annota già negli anni ’60, anticipando la immensa specchiera virtuale da cui oggi siamo avvolti, che “l’uomo e la donna, e per certi aspetti più l’uomo, che è più attivo, cercano, si procurano e addirittura mendicano un’immagine di se stessi: negli specchi, negli occhi di chi li guarda, nelle parole e nelle reazioni di amici e nemici come del passante sconosciuto”?

Secondo me aveva addosso la conoscenza d’amore. 

Amare e conoscere come medesimo movimento. Non solo perché cita la “Vita nova” in fondo a uno dei suoi pezzi più intensi qui riproposti con cura e intelligente devozione da Carmen Del Valle (credo alle coincidenze) bensì perché in lei la conoscenza coincide con il desiderio d’una relazione sempre più profonda e viva e corrispondente con il reale. La sua amica Cristina Campo parlava della necessità di attenzione da parte del poeta, come un entomologo. E lei, la filosofa che non era pittura ma parlava di pittura in modo così vertiginoso e acuto da farci intuire che il mondo intero esiste grazie per la azione di pittura dell’uomo, ecco lei equipara l’attenzione a una “ferita”. Perché chi ama non è un entomologo del mondo, ma un paziente, un crocefisso, un passivo che chiama. 

Scrive a l’Avana nel ’52: “E la passione centrale della vita è l’amore, il grande fiume che tutte le raccoglie per condurle fino alla morte a cui aspirano. Solo l’amore è capace di addentrarsi nella morte, le altre passioni o sono cieche, o vedono di traverso; o si trattengono, calamitate, o si precipitano. Solo l’amore arriva a possedere una visione; solo l’amore è capace di prendere le distanze da tutto; solo lui può combattere, vincendole, con la speranza e la disperazione. L’amore anticipa la morte e fa morire di mille morti la vita di chi lo vive, facendole così conquistare, con la sua obbedienza, la libertà.”

Lei che aveva addosso l’amore, quando parla del pittore su cui si ferma spesso, Zurbaran, quasi riscattandolo come devono fare e sempre fanno i veri critici dell’arte verso figure di pittori che li attendono nella penombra (come avvenne per Caravaggio con Longhi, o Tanzio con Testori, o Carpaccio con Sgarbi o Cignani con la Buscaroli) annota una cosa che mi s’è fissata come un diamante nascosto di questo libro di oscuri fiammeggiamenti. Di Luis Fernández Zurbaràn dunque dice che “dipingerà cipolle, pezzi di carne, fiori, sul punto di decomporsi, cogliendo il momento in cui la forma raggiunta sembra tornare alla materia dalla quale proveniva, in cui l’inferno si erge a riprendersi la preda evasa solo per una breve ora. Ma è qui che la luce delle viscere infernali lancia la sua più recondita promessa: la promessa di resurrezione resasi visibile in un’anima e che emana dalla stessa materia quasi putrefatta. Segreto il più intimo della pittura spagnola, la sua vocazione di mostrare transiti, di fare intravedere la resurrezione della materia sul punto di putrefarsi, il trans-corporarsi [trascuerpo ] glorioso di tutte le cose, la promessa in via di compiersi.

Misteri così fatti, la pittura solo può intravederli.” 

E’ uno scritto del ’51. Non importa solo guardando le date notare che cadono in anni in cui si dibatteva convulsamente di cosa è essere realisti, e che l’uso del termine “trascuerpo” trova negli stessi anni, sulle labbra tese di un altro segnato dalla pittura, Pasolini, il fiato di dirsi come dantesco “trasumanar” che significar per verba non si poria”. Erano sì anni in cui la scoperta di cosa significa nuovamente essere realisti interessava lo scambio di lettere tra Pasolini e Betocchi come le prime lezioni di don Giussani nel laico liceo milanese Berchet. Importa dunque certo notare che il nuovo dibattere intorno a una conoscenza affettiva, non attratta in un razionalismo ormai cadaverico, tocca anche Zambrano, tesa all’aurora del mondo, alla necessità di conoscere trasumanando, ovvero riaprendo le misure imposte dalla separazione materia-anima, ragione-spirito. E dunque –ecco il diamante che mi ha folgorato- importa proprio in questo senso che lei annoti che certi quadri dello Zurbaràn vennero commissionati da don Giovanni. 

Sì insomma, proprio “da don Miguel de Mañara – il gentiluomo da cui Tirso trasse in parte il personaggio di don Juan Tenorio. Una delle opere che questo singolare personaggio  commissionò  a lui oltre che al giovane Murillo – all’epoca Zurbarán era già nella sua maturità – fu l’immagine dell’Immacolata Concezione”.

Dunque don Giovanni- Miguel Manara, l’uomo emblema dell’amore come ricerca e conoscenza imperfetta, come azione e poi come remissione, come caccia sfrenata e come consegna, ecco appare in mezzo ai quadri, loro committente. Quasi fuggevole ombra, aparizione, ma sigillo di cosa sia essere realisti: essere l’uomo segnato dall’amore come erano segnati Lorca, (“amore amore amore e infinite solitudini”) Pasolini, e lei. Maria Zambrano sapeva che “il sacrificato, rapito dagli dei, deve vuotare il calice della solitudine”. Lo sapeva non come un filosofo che ammira e trae spunto dai poeti, ma come una attirata dal fuoco. Lo dice chiaro in un altro dei testi apparentemente minori di questa maestosa, dolcissima e tremenda raccolta di pensieri e discese della mente, nella quasi bizzarra conversazione con una santa Barbara. Dove si accenna non a caso a cosa è un santo. Colui la cui visione e misura amorosa resta come analogia e scandalo per ogni artista e filosofo. 

La ricerca filosofica della Zambrano non è forse una potente, umanissima, analogia di una innocente, immacolata concezione ? Concezione delle cose in noi, dell’impronta del presentarsi del mondo in noi e di noi nel reale. L’attenzione vera, annota in uno scritto “ deve fare una specie di pulizia della mente e dell’animo. Deve vedersela con l’immaginazione;  con l’immaginazione e con il sapere. Deve condurre il soggetto al limite dell’ignoranza, per non dire dell’innocenza.” Una laica ascesi della conoscenza. Un amore che tiene in considerazione l’oggetto amato più di ogni pregiudizio o immaginazione su di esso. 

La filosofa che insegue la pittura lo fa perché è segnata dall’amore come conoscenza. Su questa strada interviene con violenta precisione e con intuizioni sorprendenti sulle origini della pittura come sui fenomeni a lei più prossimi, sulle mostre a Roma come sui movimenti del ‘900. E si avvierà, come una vera amante, a realizzare l’opera che non si compie qui del tutto, ilmai compiuto libro sulla pittura, per scoprire come nei vertiginosi appunti dell’ultimo periodo la natura della luce e del suo presentarsi. 

Per amore e sete di conoscenza “l’uomo non si è mai rassegnato alla notte completa”.