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Letizia bandita

Letizia bandita

Davide Rondoni

Letizia bandita

 

“La letizia è una faccenda dura, primaria, francescana. Si perfeziona quando svaniscono i motivi di compiacimento, allora emerge pura, sua” (Tweet del 26/01/2013)

 

Vorrei fare con voi un piccolo viaggio, attraverso le voci di altri poeti, alle quali aggiungerò la mia, dentro a un problema, a una cosa non chiara come la vita, che è piena di penombre, di difficoltà, di drammi. La vita non è una cosa che si riesce a mettere dentro a una definizione o una formula matematica e la poesia, in un certo senso, esiste esattamente per questo: per “dire” la vita e metterla a fuoco. La definizione, infatti, può essere utile solo per iniziare un discorso, non per finirlo, e io sono qui per lasciare in sospeso un discorso, non per finirlo, e per affrontare una questione che è drammatica nella vita di tutti: la letizia è bandita nel senso di ricercata o è bandita perché impossibile da vivere nella nostra vita?

 

Parto dalle parole di un grande poeta italiano del ‘900, Clemente Rebora, che in una famosa poesia dice una verità straordinaria, che fotografa un po’ l’esperienza che facciamo tutti perché i poeti, parlando inevitabilmente di sé e della propria vita, a volte riescono a dire qualcosa che riguarda la vita di tutti. La poesia, in fondo, è una strana forma di comunicazione per cui un uomo di 700 anni fa come Dante dice delle cose che sono vere anche per noi, perché ha attinto a un livello dell’esistenza che è lo stesso nostro, anche se non abbiamo quasi più niente in comune con quel poeta.

 

“Qualunque cosa tu dica o faccia

c’è un grido dentro:

non è per questo, non è per questo!”.

Clemente Rebora, Sacchi a terra per gli occhi

 

Questi versi sembrano dire che qualunque cosa tu faccia o dica nella vita, anche di fronte all’esperienza di gioia più grande o al divertimento più assoluto, ti accorgi che questo non ti soddisfa del tutto, che non ti basta, perché c’è sempre un impulso, un grido che ti spinge a non fermarti perché “non è per questo”, non è solo per questo. L’uomo più pericoloso, infatti, è l’uomo soddisfatto, con l’anima bella e fatta che dice: “Ho trovato. Sono a posto”. Uno così è pericoloso perché vuol dire che ha messo a tacere questo grido, che invece tutti noi, in qualche modo, abbiamo dentro e che, anche se facciamo l’esperienza più bella, urla più forte: “Questo non ti basta. Non è per questo che vivi. Non basta questo per vivere. Non è per questo. Non è per questo”.

Allora si potrebbe pensare che una vita insoddisfatta sia il contrario di una vita lieta, che l’insoddisfazione sia il contrario della letizia, ma secondo me non è così.

Ne I Promessi sposi va in scena il fatto che la vita è piena di guai: alla fine del romanzo, Renzo e Lucia si trovano nel tinello di casa e si chiedono cosa abbiano imparato da questa storia, quale sia il sugo della storia e, in questo, Manzoni si presenta come un vero rivoluzionario perché fa tirare il sugo della storia a due poveretti del popolo, e non a intellettuali o potenti, perché chiunque può farlo, ciascuno può comprendere il senso della vita. Renzo, che è un professionista nel cacciarsi nei guai, dice che il sugo della storia è che avrebbe dovuto evitare i guai. Manzoni, però, in riferimento a Lucia dice che c’è qualcosa che non la convince nel discorso del suo “bel moralista”: è vero che il sugo della storia è non cercarsi i guai, ma lei in realtà non li ha mai cercati. Tutti, infatti, sappiamo che nella vita i guai arrivano anche se non si cercano: nonostante la vita sia fatta così, è possibile avere una vita lieta e giusta?

 

La vita, in realtà, è abitata da un controtempo, da qualcosa che ci viene contro e che si unisce a  quel grido che abbiamo dentro – “Non è per questo, non ci basta nulla” – che urla anche se si ha la donna migliore a fianco, il ragazzo più bello, se tutte le sere si può fare ciò che si vuole… È come essere “condannati” a una vita che non soddisfa mai. Io sfido qualunque uomo ad affermare il contrario, a dire che della propria vita è soddisfatto. Chi lo fa, lo fa o perché è scemo o perché è cieco e non vede niente: se venisse con me a fare un giro per le stazioni italiane, farebbe fatica a esser soddisfatto della vita quando in un giorno può capitare di dover rialzare tre o quattro barboni perché ti si buttano ai piedi. Come fai a dire “sono soddisfatto”? O sei cieco o sei scemo.

 

Siamo in un bel posto, ma non siamo in un paradiso: ci sono attriti, incomprensioni, guai… e una delle cose peggiori nella vita è illudersi di essere in paradiso o che il paradiso stia per arrivare. Questo genera infatti una grande frustrazione: come diceva Auden, un grande poeta, noi viviamo l’età dell’ansia perché ci hanno promesso che il paradiso è lì che sta per arrivare, ma non arriva mai. Tanto è vero, come sapete, che l’ansiolitico è il farmaco più venduto nel mondo.

 

Come si fa a vivere questo dramma per cui bisogna affrontare guai anche se non vengono cercati e come si fa a essere lieti, cioè a  non essere sopraffatti, immusoniti, tristi per questa faccenda? Si tratta, in fin dei conti, della condizione che San Francesco, che è un grande genio, mette al centro di quella che è forse la prima grande poesia italiana, il Cantico della Creature, nel quale la creatura dichiara- nel suo essere creatura - di non farsi da sola, di non essere come vuole...

Nessuno di noi si fa come vuole e da solo;  San Francesco pone magistralmente questa evidenza in questo Cantico che è diventato la matrice di tutta la poesia italiana. Siamo creature e la vita stessa ci parla di questo attraverso quel grido, i guai, il fatto che non siamo come vorremmo.

Attraverso tutto questo arriva un grande messaggio: sei una creatura.

 

Spesso tendiamo a dimenticarlo perché siamo bombardati da messaggi che dicono il contrario: tutto è attorno a te, puoi fare ciò che vuoi, puoi decidere ciò che sei, non devi obbedire a nulla di più grande di te...Una delle ideologie più forti di questo momento, per esempio, è l’ideologia del gender per la quale non si deve nemmeno obbedire al fatto del sesso maschile o femminile, si può deciderlo. Ma se posso autodeterminarci, se non si deve più obbedire a niente che sia più grande di noi, se siamo noi i creatori di noi stessi, perché limitarsi al fatto di poter cambiare sesso uno o due volte nella vita? Lo si potrebbe fare tutti i giorni.

 

Il fatto di essere creature non è un sentimento religioso, ma è un modo di guardare la vita che c’entra con tutto, anche con le questioni politiche e sociali. Nel Cantico delle Creature c’è una strana voce, sembra un passivo, che dice: “Laudato sii”. Di chi è la voce? Di tutto e di tutti.

San Francesco introduce un nuovo concetto: se è vero che la vita è fatta di questo messaggio – che siamo creature, che non possiamo essere soddisfatti da nulla, che tutto ci prende solo per un po’ e poi cerchiamo qualcos’altro, che la vita è fatta così – si può guardare la realtà, come faceva lui, come un segno, per cui c’è qualcosa che dà un significato e che non coincide con le creature stesse, con la faccia del moroso o della madre, che ne sono solo un segno.

 

San Francesco mette in primo piano quello che è uno dei grandissimi concetti della cultura umana, non solo cristiana: la vita è un segno, la realtà è tutto un segno e il segno è insoddisfacente se staccato dal suo significato. San Francesco, in quello strano insieme di voci che dicono “Laudato sii”, esprime proprio questo: “Laudato sii” per tutte le cose che sono nella vita e che sono segno di te, “Mio Signore”.

 

Tutta la vita è segno del Signore ed essendo segno di Lui ci accorgiamo del valore infinito che hanno questi segni. Per questo io non sono d’accordo con quanto dice Saint-Exupéry in quel libro molto bello, ma anche molto mesto, che è il Piccolo principe: “L’essenziale è invisibile agli occhi”. Io credo che l’essenziale sia anche invisibile, ma che ci sia un essenziale che è visibile agli occhi, perché il segno è essenziale per vivere.

Nessuno di noi può camminare senza segni; i segni sono essenziali nella vita: trasferire l’essenziale solo nell’invisibile eliminerebbe il valore del visibile, mentre la faccia della persona di cui ci innamoriamo è un segno essenziale nella nostra vita, non lo si deve eliminare per arrivare a Dio. Essenziale nella vita è anche il segno che rimanda al significato. In una poesia, per esempio, ci sono le parole e c’è il significato, non si saltano le parole per arrivare al significato.  Che l’essenziale sia anche visibile nella civiltà cristiana è dimostrato dal sangue, talento, soldi spesi dagli uomini per costruire segni come questa chiesa.

 

La realtà come segno è un problema cruciale perché le cose, di per sé, sono insoddisfacenti: neppure le persone più care o i figli sono un motivo sufficiente per vivere, sono una soddisfazione adeguata per vivere. Tutte le cose che ci circondano – la faccia della persona che si ama, questa chiesa, questa giornata – o sono semplicemente una sorta di gabbia dentro la quale muoversi e sbattere senza trovare soddisfazione  – e la nostra è un’epoca che dello sbattimento ha fatto una specie di normalità – o tutto è segno.

 

Questa è la grande avventura della vita: interpretare i segni che succedono. Non è un caso che Gesù Cristo abbia fatto tanti segni e abbia parlato per segni nel Vangelo. Noi, però, non siamo più abituati a leggere la vita come segno, ma come cose che capitano e ci emozionano. Dante ci ricorda che la vita è un viaggio, un’avventura, un cammino in mezzo a segni di gioia e dolore, che fanno stare bene e che fanno stare male, di cose belle e cose brutte.

Se la vita è un posto dove si sbatte nelle circostanze e ci si sente bene o male a seconda di dove si sbatte, diventiamo schiavi dell’umore e sembra che lo scopo della vita sia trovare dei correttivi sempre maggiori per tenere alto l’umore. Ma l’umore, come dice la parola stessa, è un liquido, è qualcosa che gira nel corpo e la nostra vita non può dipendere dall’umore, ma deve dipendere dall’amore.

Nella vita o si sbatte da una cosa all’altra o si sperimenta un amore, un affectus, cioè un legame con ciò di cui la realtà è segno. Essendo legato e innamorato di quella cosa, tutta la realtà e tutti i segni parlano di quello. O la vita è l’evento, l’avventura, il dramma, la lettura dei segni che avviene dentro un legame che si ha con l’Essere e con il significato di tutto, oppure la vita è un flipper dove l’umore dipende da dove va la pallina.

 

Allora il problema è: come si fa a vivere un legame con ciò di cui la realtà è segno? Cosa permette di essere legato a quella cosa di cui tutto è segno, per cui la vita diventa l’avventura di cercarla, di interpretarla, di sentirla? Se non cerchiamo ciò di cui tutto è segno, l’unica alternativa che abbiamo, come diceva Leopardi, e alla quale la nostra natura si ribella, è contemplare la bellezza della vita che sfiorisce, il ritratto di una bella donna sopra il suo monumento sepolcrale. Nella nostra natura, però, c’è qualcosa che si ribella a questa constatazione che la bella donna è fatta per diventare un ritratto sepolcrale. D’Annunzio, per esempio, diceva che la vita è come sabbia nel cavo della mano, che passa. O tutto passa o la letizia è nel legame con qualcosa di cui tutto è segno, per cui la vita intera è una specie di grande teatro di questo amore, di questo legame i cui segni ci mettono in questione, ci parlano, ci scandalizzano a volte, ci fanno pensare di più, ci movimentano...

 

Vorrei leggervi a questo proposito una poesia tremenda che io amo molto. È una poesia che Giuseppe Ungaretti scrive quando muore il figlio di 9 anni. L’ho scelta perché se si vuole parlare di letizia bandita bisogna andare a cercarla là dove sembra negata, là dove sembra impossibile. Cosa me ne faccio di una letizia cercata dove è comodo? Questo è anche il senso del racconto di San Francesco. La letizia è testimoniata maggiormente là dove sembra che non ci sia alcuna possibilità che esista e questa poesia, che quest’uomo scrive per il figlio che morto, ne è un esempio.

 

“Non potevi dormire, non dormivi...

Gridasti: Soffoco...

Nel viso tuo scomparso già nel teschio,

Gli occhi, che erano ancora luminosi

Solo un attimo fa,

Gli occhi si dilatarono... Si persero...

Sempre era stato timido,

Ribelle, torbido; ma puro, libero,

Felice rinascevo nel tuo sguardo...

Poi la bocca, la bocca

Che una volta pareva, lungo i giorni,

Lampo di grazia e gioia,

La bocca si contorse in lotta muta...

Un bimbo è morto...

 

Nove anni, chiuso cerchio,

Nove anni cui nè giorni, nè minuti

Mai più s'aggregeranno:

In essi s'alimenta

L'unico fuoco della mia speranza.

Posso cercarti, posso ritrovarti,

Posso andare, continuamente vado

A rivederti crescere

Da un punto all'altro

Dei tuoi nove anni.

Io di continuo posso,

Distintamente posso

Sentirti le mani nelle mie mani:

Le mani tue di pargolo

Che afferrano le mie senza conoscerle;

Le tue mani che si fanno sensibili,

Sempre più consapevoli

Abbandonandosi nelle mie mani;

Le tue mani che si fanno sensibili,

Sempre più consapevoli

Abbandonandosi nelle mie mani;

Le tue mani che diventano secche

E, sole - pallidissime -

Sole nell'ombra sostano...

La settimana scorsa eri fiorente...

 

Ti vado a prendere il vestito a casa,

Poi nella cassa ti verranno a chiudere

Per sempre. No, per sempre

Sei animo della mia anima, e la liberi.

 

Ora meglio la liberi

Che non sapesse il tuo sorriso vivo:

Provala ancora, accrescile la forza,

Se vuoi - sino a te, caro! - che m'innalzi

Dove il vivere è calma, è senza morte.

 

Sconto, sopravvivendoti, l'orrore

Degli anni che t'usurpo,

E che ai tuoi anni aggiungo,

Demente di rimorso,

Come se, ancora tra di noi mortale,

Tu continuassi a crescere;

Ma cresce solo, vuota,

La mia vecchiaia odiosa...

 

Come ora, era di notte,

E mi davi la mano, fine mano...

Spaventato tra me e me m'ascoltavo:

E' troppo azzurro questo cielo australe,

Troppi astri lo gremiscono,

Troppi e, per noi, non uno familiare...

 

(Cielo sordo, che scende senza un soffio,

Sordo che udrò continuamente opprimere

Mani tese a scansarlo...)”

 

Giuseppe Ungaretti, Gridasti: soffoco

 

Come fa quest’uomo a dire che questo bambino che ha perso, lo libera più adesso che prima? O è pazzo o è davvero così. In questa poesia di dolore e di assenza di gioia, c’è però un punto di letizia che sembra un paradosso: il contrario della letizia non è il dolore, ma la mancanza di questo affetto, di questo legame con ciò che è il significato di tutto. Per questo ci può essere paradossalmente letizia anche nel cuore di una poesia così, che porta l’uomo a dire: “Sei animo della mia anima, e la liberi”.

 

Un altro grande poeta, che spero leggiate, che è il mio maestro Mario Luzi, in una sua poesia, scritta quando era molto anziano, già a 90 anni, alla fine del ‘900 – secolo, come sapete, delle più grandi brutture storiche e filosofiche, del più grande senso del nulla che ha attraversato la vita degli uomini – scrive una poesia dove c’è un uomo che guarda il tempo passare nella valle e si interroga su quale sia stata la sua parte nella vita:

 

“(…) Se ne va

avendo e non avendo

saputo qual è stata la sua parte...

ma è stata - lei lo sa -. È stata

e questo la fa piangere

talora di grazia e di letizia. (…)”

Mario Luzi, Vita fedele alla vita

 

Luzi si interroga sul senso della sua vita e si chiede: “Che senso ha avuto la mia vita nella vita? Che senso ha avuto questo punto sperduto che sono? Ha avuto una parte?”. E alla fine del ‘900 questo uomo scrive: “Sì, ha avuto una parte. E questo lo fa piangere di grazia e di letizia”. Luzi è un poeta che usa la parola letizia come San Francesco, il quale, quando parla di letizia,parla di un legame fondamentale che c’è anche quando si è nella buca del dolore peggiore: la letizia non si riconosce dal fatto che si ridacchi – a ridacchiare sono bravi in tanti, per mestiere o per non pensare – ma dalla positività assoluta che non ci abbandona neppure nel più cupo delle difficoltà.

Il segno della positività assoluta non è il sorriso – in alcuni santi, come in Madre Teresa di Calcutta, don Bosco, san Filippo Neri, don Giussani, può essere anche il sorriso, che arriva quando meno te lo aspetti – ma la vita che non finisce di generare.

 

Secondo un’etimologia un po’ strana, letizia ha a che fare con letame: la parola letame viene dal fatto che con quel concime la terra è resa lieta e genera. Il segnale della letizia, quindi, non è il sorriso,ma è la generazione, il fatto che la vita è positiva e continua a generare,nonostante tutto. Questa esperienza si realizza anche in quei luoghi in cui non c’è niente per essere contenti, non c’è niente che parli di letizia, come succede spesso anche nella nostra vita, quando sembra che non ci sia niente per essere contenti.

Ciò che rende la positività generativa è un legame con l’Essere e la domanda della vita diventa: “Dove trovare questo legame con l’Essere, dove viverlo, come sperimentarlo? È un sogno, è un sentimento passeggero, cos’è?”.

 

Non è un caso che l’uomo – San Francesco –che ha introdotto la parola letizia, quasi come un chiodo e una provocazione nella nostra società rispetto alla quale tutti dobbiamo fare i conti, non sia un filosofo o uno che pensava all’essere, ma un uomo il cui legame con l’Essere era fatto di due cose: mangiare il corpo dell’Essere – l’Eucarestia – e fare esperienza dell’Essere nella compagnia dei suoi amici. Era talmente teso a questo rapporto con l’Essere che tutto gli serviva per costruire un rapporto forte, vero, concreto.

 

La poesia che vi leggo ora è nata una domenica all’alba quando, entrando alla stazione Termini, ho visto un uomo inginocchiato con due grandi sacchetti azzurri ai lati in una posizione che ricorda la Maddalena di Masaccio – perché l’arte non serve per l’arte, ma serve per guardare la vita – e, reprimendo un conato di vomito – provo a rialzarlo.

 

 

Inginocchiato

domenica mattina presto

nella luce bianca di stazione Termini,

due sacchi di plastica azzurri, i riflessi

del mattino antichi sul marmo

immobili fulmini, lui

tremava in posizione sospesa.

 

Alzarlo ma un conato di vomito

il treno partiva

mio figlio in un'altra città monito e

bellissimo drago aspettava

da tanto questo allenamento, lasciai

a un altro il compito  il tormento

su coraggio, mandava

un odore tremendo,

la testa piena di croste, la testa...

 

la stessa posizione a V

- vedo in un lampo, occhi mia

disfatta festa -

la rossa Maddalena di Masaccio,

i capelli d'oro

 

come faccio, esilio sempre tu -

 

terzo in due giorni tra quelli buttati peggio,

uno epilettico, sbronzo, caduto in un crampo di danza

ha sbavato nei giardinetti

davanti alla nuova piazza Aulenti

a Milano tra i grattacieli scheggianti

non ha voluto ambulanza,

ha mentito, s'è alzato, m'ha baciato -

l'altro, uno slavo, giù da una panchina

o in un bosco di fantasmi

alla metro Roma Anagnina.

 

E il terzo fu lui -dipinto nello schifo e nella luce

della domenica mattina

cercava il finale rialzarsi

nella grande stazione

 

ma inchiodato in ginocchio

l'ha reinventata ancora tua via

della passione, Dio così devastato, uomo

abbandonato, croce

su cui deve stendersi

ancora il sangue, voce, tutto questo latrato

 

 

 

Quest’altra poesia, invece, è nata mentre andavo a New York a presentare una nuova edizione dei Canti di Leopardi, finalmente tradotti negli Stati Uniti. Riflettendo su di lui, mi sono soffermato sulle sue ultime parole. Secondo il suo biografo, infatti, le ultime parole dette da Leopardi sono: "Non ti vedo più" e questo mi ha molto colpito perché, quando si muore, una delle cose che dispiace maggiormente è proprio il non vedere più la persona che si ama; perché indica che quello che conta nella vita è ciò che si ama.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

trovandomi a NY per presentare una traduzione nuova delle poesie di Leopardi, ripassando alcune cose in aereo, trovai che il suo estremo strambo amico Ranieri racconta che le ultime parole del poeta prima di morire furono le dolcissime, tremende: “Non ti vedo più”.

 

 

Il Cantico dei Cantici, il più grande testo sull’amore mai scritto, è un cantico di inseguimento nel quale la storia non presenta un lieto fine in cui lui e lei si trovano e si mettono insieme. L’amore, infatti, è un continuo inseguimento e questo vale per chiunque, per chi si sposa, chi mette su una casa, chi fa dei figli… la persona che abbiamo al nostro fianco non sarà mai nostra e saremo sempre insoddisfatti se l’ambizione è possederla.

Nel Cantico dei Cantici c’è una prospettiva infinita e il rapporto con l’infinito e con l’Essere è sempre il problema, perché tutto tende lì, perché a un certo punto le amicizie e gli amori o tendono lì o muoiono; o si prende sul serio la traccia di infinito che recano con sé, quella insoddisfazione che la natura ci ha messo dentro, o muoiono. Anche dopo aver fatto la cosa più bella e più goduriosa, c’è un momento di stasi, di down. Noi siamo fatti naturalmente così: non perché siamo condannati alla mestizia, ma perché questo è un segno che la strada è ancora più bella, più interessante, più alla nostra misura vera, che è la misura della creatura.

 

Nella lingua italiana c’è la parola “belvedere” che, ho scoperto recentemente, esiste solo in italiano, nel senso che si utilizza così anche in altre lingue. Mi ha colpito il fatto che quello che ci rende ricchi nella vita non è la ricchezza, la casetta, la casupola, la reggia, ma il belvedere, ciò che si ha di fronte. La ricchezza della vita sarà sempre in ciò che si guarda, in ciò a cui si tiene fisso lo sguardo, più ancora che in quello che si ha. Per questo i signori del tempo avevano ville con meravigliosi belvederi, perché più che con gli stucchi in casa la vera ricchezza si dimostrava dall’avere un grandissimo belvedere.

La vera ricchezza è il belvedere, sta nel guardare qualcosa di bello. Questo vale anche nell’esperienza amorosa: inevitabilmente il volto della persona con cui si sta dopo un po’ annoia, ma il problema è cosa si guarda quando si guarda quel volto, se l’avanzare delle rughe o qualcosa di infinitamente bello.

 

 

 

 

Dante è un genio perché aveva capito che l’amore è un amen: l’ultima immagine che Dante ci dà di Beatrice, della ragazza della quale è innamorato e per la quale ha scritto tutto, è lei “con quanti beati per li miei prieghi ti chiudon le mani[1]”. Amare è fare amen nella vita dell’altro, augurare che “il tuo viaggio sia”, non “stai qui”, guardare l’infinito, non quello che si tocca o che si vede.

La poesia di Leopardi mi aveva colpito perché se a un uomo che sta morendo quello che dispiace è non vedere più l’altro, significa che aveva capito tutto: aveva capito che la consistenza della vita è ciò che si guarda, dove si tengono fissi gli occhi, il segno perché segnala, non il segno per sbatterci contro.

Allora, quasi in risposta a ciò che avevo letto, ho scritto questa poesia:

 

 

Mi piace New York quando finisce

nella luce,

il ventaglio che si apre sopra le deviazioni

e le cime

a Battery park o Riverside,

 

il bianco favoloso incendio

che la compie

sopra ogni slancio

 

è là che guardavo per cercare

te, e non avere solo

il ragno delle città addosso

tra chi scarica i camion di pesce congelato

che brilla sotto gli schermi giganteschi

e i passi frettolosi controvento - -

 

una frase di Leopardi mi ha dominato

nella meravigliosa rosa di vetro:

non ti vedo più.

La sua ultima cosa

prima di morire.

 

E io non la voglio mai dire.

Sempre ti vedrò,

mio amore alla fine di ogni maestà

anche dai ponti che portano via

nel fuoco, nei ghiacci

alla fine di tutte le città

 



[1] Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso Canto XXXIII