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Arthur Rimbaud, Scienza e poesia

Arthur Rimbaud, Scienza e poesia

La scienza è troppo lenta, dice Arthur Rimbaud.

Del resto seicento anni prima che Mr Plank e altri dopo di lui ci mostrassero che la materia è movimento di energia, un poeta esule e visionario d'amore, Dante, aveva detto che "          'l sole e l'altre stelle" sono mosse da amore.

Tutto mosso da una energia. E questo per lui non era una delicata metafora sentimentale, ma la stoffa del mondo.

La frase di Rimbaud -che in genere fa arrabbiare i miei amici scienziati ma solo perche la scienza è forse troppo lenta invece gli scienziati spesso sono frettolosi- indica che la via sulla quale camminano poesia e scienza è la medesima. La via è la medesima e se vi è differenza è di modus, di misura, in definitiva di metodo. Si tratta della strada del medesimo "appassionato inseguimento del Reale" come diceva Oscar Milosz, l'autore che scrisse in poesia teatrale la vera storia del personaggio storico che diede poi vita alla figura di don Giovanni. Colui che grande inseguitore della bellezza, cercava di afferrare -abbraciandone i mille e mille segni- la consistenza ultima della bellezza, la sua stessa reale natura. I poeti sono don Giovanni veloci, gli scienziati diciamo così, sono dei don Giovanni più lenti.

 

Il Reale, la Natura, sono i termini ricorrenti nella grande poesia, da Omero a Leopardi, da Baudelaire a Ungaretti poiché veramente un inseguimento accomuna la passione dello scienziato e del poeta: entrambi mettono a fuoco la vita. Il primo con i sempre più sofisticati mezzi di indagine che la tecnologia predispone per accondiscendere a tale appassionato inseguimento, il secondo con lo strumento povero, antico, ricchissimo e sempre nuovo della parola e della sua combinazione, come diceva Dante, per legami mosaici armonizzata.

La messa a fuoco del mondo, per il poeta come per lo scienziato, è un lavoro che nasce dalla attenzione, catturata, ferita e messa in moto dal Reale come evento, il vivente e la materia come fonte continua di stupore e di dramma. Mario Luzi scriveva che ai poeti interessa la fisica del mondo, e un altro poeta italiano Piero Bigongiari parlava della poesia come di una "scienza nutrita di stupore".

Del resto, Leopardi nel suo meraviglioso Canto Notturno chiede "cosa fa l'aria", "cosa fai tu luna in ciel?" Ovvero sorge una domanda circa il movimento, l'azione che si compie nel Reale, nella Natura. C'è una azione nel mondo, nella Natura, che sempre chiede di avanzare, di osare nella ricerca e nel dire. Che chiede una risposta da parte nostra. E la nostra risposta coincide non solo con la contemplazione, ma anche con la ricerca e nascita in noi è da noi di nuova vita, di opere.

La poesia sorge come mossa da una "ispirazione" ovvero un prender fiato da qualcosa che chiede, quasi pretende di essere detto avvenendo nel mondo ( esteriore e interiore, a quel livello in cui "je est un autre" per dirla con Rimbaud). Qualcosa che chiede al poeta di fissarlo e di metterlo a fuoco con le parole. O allo scienziato di esser messo a fuoco con strumenti di analisi sofisticati. Scrivere è obbedire, ob-audire, ascoltare quel che parla nel mondo. E il vero obbediente è colui che restituisce ciò che ascolta, con una voce nuova.

Nessun poeta decide che cosa lo ispira e anche quando si trova - al pari di un pittore- dinanzi a un soggetto commissionato, la imprevedibilità della vera fonte di ispirazione gioca un ruolo determinante. In tanti avevano raffigurato il tema biblico della Genesi: ma che cosa ispirò a Michelangelo quel delicato potente quasi tocco di dita con cui ha lasciato nei nostri occhi per secoli e secoli il gesto creativo del PadreEterno? Allo stesso modo i fenomeni e la loro complessità chiamano lo scienziato a una continua messa a fuoco. Una obbedienza e una restituzione. Una ricerca e una conoscenza.

In francese,  ha notato un grande poeta Paul Claudel, conoscere suona come co-nascere. Ogni momento di conoscenza significa partecipare alla nascita del fenomeno. Una genesi sempre operante grazie alla collaborazione di chi cerca. L'uomo che conosce non è un proprietario ma uno che nasce e rinasce con il mondo. Per questo la poesia e la scienza contribuiscono a quel che Ungaretti chiamava il ringiovanimento dell'uomo nel mondo.

Entrambe, la poesia e la scienza appartengono allla grande avventura della conoscenza. L'aver posto - in epoca abbastanza recente e in una parte limitata di mondo- la scienza a modo principale e quasi unica depositaria della vera conoscenza e la poesia ( e l'arte in genere) invece in una sfera cosiddetta della espressione - dei sentimenti, o delle emozioni- ha nuociuto a entrambe. La scienza da sola non conosce la vita. E la poesia ridotta a espressione diviene un passatempo per uomini colti o presunti tali. O materia scolastica da insegnati inacidite.

Nella attuale vivace e interessantissima discussione intorno alle possibilità della scienza da un lato di poter percorrere tutte le sue applicazioni ( specie in campi sensibili) e dall'altro intorno ai postulati che la dovrebbero fondare si evidenzia la fertilità e il dramma dell epoca che viviamo. La poesia ha compiuto questo lavoro durante una stagione ricchissima della prima metà del Novecento. Una faccenda travagliata e splendida. Lo ha fatto accanto alla pittura. Incessantemente interrogate entrambe da filosofi e da gente di ogni tipo su cosa significhi quanto Rimbaud aveva sintetizzato con fulminea luce di parole: "lavoro per rendermi chiaroveggente", o cosa significhi quanto affermava Cézanne: "la Natura è dentro." L'uomo contemporaneo soffre per molte cose, scriveva negli anni '50 un poeta che poi è divenuto molto noto per aver fatto un altro "mestiere". Ma soprattutto, diceva, l'uomo contemporaneo soffre per "mancanza di visione". Questo tizio si chiamava Karol Wojtyla e con lui lo pensavano e scrivevano autori negli stessi anni molto differenti e distanti, come Alvaro Mutis poeta colombiano. La mancanza di visione è stata in parte surrogata e forse favorita dall'insorgere di grandi ideologie che hanno cercato non a caso di usare e soggiogare arte e scienza, senza mai però riuscirci del tutto. Poi, si dice, le grandi ideologie sono cadute, ma è una menzogna. Ce ne sono altre in campo, potentissime e non meno violente. Una di queste è certo quella che riduce ogni valore a merce. Non manca certo di apparati e di cantori. Un'altra è l'ideologia che spesso riduce la scienza a scientismo, affidando le magnifiche sorti progressive dell umanità a un indistinto e ambiguo valore assoluto della scienza e dei suoi possibili risultati. Tali ideologie, spesso alleate di uno spiritualismo che vorrebbe privare l'uomo singolo della sua identità anche  corporea per farne un puro ente spirituale -e infine un circuito o un ologramma- hanno trovato nella voce dei poeti e in quelle di molti scienziati una coraggiosa e spesso sofferta opposizione. Un importante poeta W.H. Auden titolò un suo poemetto "L'età dell'ansia" dove ritrasse, dopo "La terra desolata" di Eliot, un mondo occidentale in attesa ansiosa del paradiso terrestre promesso da ideologi della società e della scienza, e l'effetto ansiogeno che questo continuo promettere produce su più generazioni che si concepiscono abitanti di un posto dove i guai finiremo prima o poi per evitarli ( lo sperava anche il protagonista dei Promessi sposi di Alessandro Manzoni ) - è solo questione di tempo. Ma tale paradiso tarda ad arrivare, diciamo così, e l'ansia rischia di trasformarsi in pretesa. Verso la scienza, verso lo Stato a cui si delega d'essere garante di tutto - dalla pensione ai diritti ai desideri. La poesia miglior del nostro tempo cerca di riprendere un racconto del vivente che non sia avvelenato da tali ansie. Una rinnovata percettività dell'istante e del suo segreto incommensurabile, una esperienza della Natura come scena in cui è possibile la umana visione, fuori dal naturalismo e dall'antagonismo uomo-natura che aveva segnato i due secoli precedenti. Le poesie di alcuni degli ultimi premi Nobel, da Seamus Heaney a Derek Walcot a Wole Soynka e di alcuni altri grandi poeti come Mario Luzi e Les Murray o altri,  indicano che le parificazioni tra uomo e biologia così come le opposte pretese di fare dell uomo una sorta di demiurgo opposto alle leggi di natura non sono più all'ordine del giorno della poesia. Inizia una episteme nuova, rischiosa e avventurosa, che sente la scienza come sorella della meraviglia e della conoscenza. La poesia e il nominare il reale della scienza si trovano a toccare zone simili. Una volta un mio amico, importante astrofisico, mi disse che stavano cercando, coi loro meravigliosi telescopi in orbita, la luce fossile. E io gli dissi: luce fossile ? cioè cercate una metafora poetica? Spesso la scienza per poter dire, comunicare cosa è l'oggetto della propria ricerca ricorre a metafore poetiche. È successo anche qui, no?

Non credo che tra lo scienziato e il poeta autentici ci sia una differenza d'animo. Lo stupore, la chiaroveggenza e in fondo quel tremare dinanzi al mistero sono di entrambi. Diverso è il metodo, la strada è la medesima. Percorsa con diversi gradi di velocità e dunque con diversi modi, diciamo così, di gustare il panorama. Il poeta procedendo per sintesi, analogie, metafore, allegorie corre sui nessi segreti del mondo, sulle corrispondenze, ne conosce fulmineamente la portata. Lo scienziato quando pure deve - e lo fa spesso- a intuizioni, metodi sintetici e a volte quasi rabdomanti nella scoperta dei dati -recedendo anche attraverso gli errori- lo fa comunque per poi sistemarli in un cammino più lento, analitico, che procede per gradi e che quando conosce salti sono in realtà frutto di mille piccoli passi precedenti. Nell'animo lo stesso fuoco, nelle gambe la medesima energia disponibile a stili diversi. Non a caso, dicevo, non sono rari i casi in cui gli scienziati per dar conto di quanto scoprono o di quanto accade a loro stessi nel processo della scoperta ricorrono al linguaggio della poesia

 

Si può concorrere ancora insieme a creare una lingua che insegua il Reale appassionatamente ?

Non a caso, anche con ironia, proprio Les Murray, poeta australiano in una poesia osservava che Newton vedendo la mela cadere ha avuto una geniale idea. E aggiungeva anche che se Mr Newton si fosse chiesto pure come diavolo avesse fatto quella mela ad arrivare lassù avrebbe scoperto una "fisica più vasta".  Siamo tutti qui per questo.

 

La science est trop lente, déclare Arthur Rimbaud.

matière est mouvement et Du reste, six cents ans avant que M. Planck, et d’autres après lui, nous démontrent que la énergie, un poète en exil et visionnaire d’amour, Dante, avait affirmé que « ‘l sole e l’altre stelle », « le soleil et les autres étoiles » sont mus par l’amour.

Tout est mu par une énergie. Pour lui, ce n’était pas une délicate métaphore sentimentale, mais l’étoffe du monde.

La phrase de Rimbaud – qui irrite en général mes amis scientifiques, mais seulement parce que si la science est sans doute trop lente, les scientifiques sont souvent pressés - indique que poésie et science avancent sur le même chemin. C’est le même chemin, et s’il y a une différence, elle réside dans le modus, la manière, la mesure, bref, la méthode. Il s’agit du chemin de la « poursuite passionnée du Réel » elle-même dont parlait Oscar Milosz, l’auteur qui a raconté en poésie théâtrale l’histoire vraie du personnage historique,qui a ensuite donné vie au personnage de Don Juan. Cet homme, grand pourchasseur de beauté, tentait de saisir – en embrassant ses milliers de signes – la consistance ultime de la beauté, sa nature réelle. Les poètes sont des Don Juan rapides, les scientifiques sont, en quelque sorte, des Don Juan plus lents.

Le Réel, la Nature, sont les termes récurrents dans la grande poésie, d’Homère à Leopardi, de Baudelaire à Ungaretti, parce qu’il existe vraiment une poursuite commune dans la passion du scientifique et du poète : tous deux tirent la vie au clair. Le premier par les moyens d’enquête toujours plus sophistiqués dont dispose la technologie pour accéder à cette poursuite passionnée, le second par l’instrument pauvre, antique, richissime et toujours nouveau de la parole et de ses combinaisons, comme disait Dante, harmonisée par des liens inspirés des Muses. Legami musaici.

 

La mise au clair du monde, pour le poète comme pour le scientifique, est un travail qui naît de l’attention, captivée, blessée et mise en mouvement par le Réel comme événement, par le vivant et la matière comme source continuelle d’étonnement et de drame. Mario Luzi écrivait que les poètes s’intéressent à la physique du monde, et un autre poète italien, Piero Bigongiari, parlait de la poésie comme d’une « science nourrie d’étonnement ».

Du reste, Leopardi, dans son merveilleux Chant Nocturne, demande « que fait l’air », « que fais-tu, lune, dans le ciel ? ». Autrement dit, une interrogation surgit sur le mouvement, l’action qui s’accomplit dans le Réel, dans la Nature. Il y a dans le monde, dans la Nature, une action qui demande sans cesse de progresser, d’oser dans la recherche et dans la parole, qui demande une réponse de notre part. Et notre réponse coïncide non seulement avec la contemplation, mais aussi avec la recherche et la naissance en nous et par nous d’une vie nouvelle, d’œuvres.

La poésie surgit comme mue par une « inspiration », c’est-à-dire un souffle qui naît de quelque chose qui demande, qui prétend presque, d’être dit comme survenant dans le monde (extérieur et intérieur, à ce niveau où « je est un autre », pour le dire avec Rimbaud). Quelque chose qui demande au poète d’être fixé et tiré au clair par les mots. Ou au scientifique d’être tiré au clair par des instruments d’analyse sophistiqués. Écrire, c’est obéir, ob-audire, écouter ce qui parle dans le monde. Et le véritable obéissant est celui qui restitue ce qu’il entend, avec une voix nouvelle. Aucun poète ne décide ce qui l’inspire et même lorsqu’il se trouve – à l’égal d’un peintre – face à un sujet commandé, l’aspect imprévisible de la véritable source d’inspiration joue un rôle déterminant. Beaucoup avaient représenté le thème biblique de la Genèse ; mais qu’est-ce qui a inspiré à Michel-Ange ce toucher de doigts délicat et puissant par lequel il a laissé pour des siècles et des siècles le geste créateur du Père Éternel dans nos yeux ? De la même manière, les phénomènes et leur complexité appellent le scientifique à une mise au clair continue. Une obéissance et une restitution. Une recherche et une connaissance.

Un grand poète, Paul Claudel, a remarqué qu’en français, connaître sonne comme co-naître. Chaque moment de connaissance signifie participer à la naissance d’un phénomène. Une genèse toujours agissante grâce à la collaboration de ceux qui cherchent. L’homme qui connaît n’est pas propriétaire, mais il naît et renaît avec le monde. C’est pourquoi la poésie et la science contribuent à ce qu’Ungaretti appelait le rajeunissement de l’homme dans le monde. Toutes deux, la poésie et la science, appartiennent à la grande aventure de la connaissance.

Avoir placé, à une époque relativement récente et dans une partie limitée du monde, la science comme la principale et presque unique dépositaire de la vraie connaissance et la poésie (et l’art en général) dans une sphère dite de l’expression – des sentiments ou des émotions – a nui à toutes deux. La science seule ne connaît pas la vie. Et la poésie réduite à expression devient un passe-temps pour des hommes cultivés ou présumés tels. Ou une matière scolaire pour enseignants aigris.

La discussion actuelle, vive et très intéressante, d’une part sur les possibilités de la science de parcourir toutes ses applications (notamment dans des domaines sensibles) et de l’autre autour des postulats qui devraient la fonder, fait émerger la fertilité et le drame de l’époque que nous traversons. La poésie a accompli ce travail dans une saison très riche, la première moitié du vingtième siècle. Une histoire tourmentée et splendide. Elle l’a fait aux côtés de la peinture : toutes deux sans cesse interrogées par des philosophes et des personnes de tous types sur ce que signifie ce que Rimbaud avait résumé dans un éclair foudroyant de paroles : « je travaille à me rendre voyant », ou ce que signifie ce qu’affirmait Cézanne : « la Nature est à l’intérieur ». L’homme contemporain souffre de nombreux maux, écrivait dans les années 50 un poète qui est par la suite devenu célèbre pour avoir exercé un autre « métier ». Mais, disait-il, l’homme contemporain souffre surtout d’un « manque de vision ». Cet homme s’appelait Karol Wojtyla et, avec lui, des auteurs de la même époque, très différents et éloignés, le pensaient et l’écrivaient, par exemple le poète colombien Alvaro Mutis. Le manque de vision a été en partie remplacé et peut-être favorisé par l’apparition de grandes idéologies qui ont tenté d’utiliser et de dompter art et science, sans jamais toutefois y parvenir totalement. Puis, dit-on, les grandes idéologies se sont effondrées, mais c’est un mensonge. Il y en a d’autres sur le terrain, très puissantes et tout aussi violentes. L’une d’entre elles est celle qui réduit toute valeur à marchandise. Elle ne manque certes pas d’appareils et de chantres. Une autre est l’idéologie qui réduit souvent la science au scientisme, confiant le magnifique destin progressif de l’humanité à une valeur absolue indistincte et ambiguë de la science et de ses possibles résultats. Ces idéologies, souvent alliées à un spiritualisme qui voudrait priver l’individu de son identité, y compris corporelle, pour en faire une entité purement spirituelle – et en fin de comptes un circuit ou un hologramme – ont trouvé dans la voix des poètes et dans celle de nombreux scientifiques une opposition courageuse et souvent douloureuse. Un important poète, W.H. Auden, a intitulé l’un de ses poèmes « L’âge de l’inquiétude » ; il y décrit, après la « terre vaine » d’Eliot, un monde occidental dans l’attente anxieuse du paradis terrestre promis par des idéologues de la société et de la science, et l’effet anxiogène que cette promesse perpétuelle produit sur plusieurs générations, qui se considèrent comme les habitants d’un lieu où nous finirons tôt ou tard par supprimer les ennuis (ce qu’attendait aussi le personnage principal des Fiancés d’Alessandro Manzoni) – ce n’est qu’une question de temps. Mais un tel paradis tarde à arriver, disons-le ainsi, et l’inquiétude risque de se transformer en prétention : envers la science, envers l’État, auquel on délègue la tâche d’être garant de tout – de la retraite, aux droits, aux désirs. La meilleure poésie de notre époque tente de reprendre un récit du vivant qui ne soit pas empoisonné par ces inquiétudes. Une perceptivité renouvelée de l’instant et de son incommensurable secret, une expérience de la Nature comme scène sur laquelle la vision humaine est possible, en dehors du naturalisme et de l’antagonisme homme-nature qui avait marqué les deux siècles précédents. Les poésies de certains des derniers prix Nobel, de Seamus Heaney à Derek Walcot en passant par Wole Soynka et d’autres grands poètes tels que Mario Luzi et Les Murray, ou d’autres encore, indiquent que l’identification de l’homme à la biologie, ainsi que les prétentions opposées de faire de l’homme une sorte de démiurge contraire aux lois de la nature ne sont plus à l’ordre du jour de la poésie. Commence alors une épistémologie nouvelle, risquée et aventureuse, qui perçoit la science comme sœur de l’émerveillement et de la connaissance. La poésie et la nomination du réel par la science touchent des zones similaires. Une fois, un ami, un astrophysicien d’importance, m’a expliqué qu’ils cherchaient la lumière fossile avec leurs merveilleux télescopes en orbite. Je lui ai demandé : la lumière fossile ? C’est-à-dire que vous cherchez une métaphore poétique ? Souvent la science, pour pouvoir dire, communiquer ce qu’est l’objet de sa propre recherche, a recours à des métaphores poétiques. C’est ce qui s’est passé ici aussi, n’est-ce pas ?

Je ne crois pas qu’il y ait de différence d’état d’esprit entre le scientifique et le poète authentiques. L’étonnement, la voyance et ce tremblement au fond face au mystère les caractérisent tous deux. La méthode est différente, le chemin est le même, parcouru avec différents degrés de vitesse et donc différents moyens, disons, pour profiter du panorama. Le poète, en procédant par synthèses, analogies, métaphores, allégories, court sur les liens secrets du monde, les correspondances ; il en connaît la portée par fulgurance. Le scientifique, même lorsqu’il doit – et cela arrive souvent – à des intuitions, des méthodes synthétiques et parfois presque rhabdomanciennes dans la découverte des données – en reculant aussi à travers les erreurs – le fait tout de même pour les classer ensuite sur un chemin plus lent, analytique qui procède par degrés ; lorsqu’il connaît des sauts, ils sont en réalité le fruit de mille petits pas précédents. Dans l’âme, le même feu, dans les jambes, la même énergie disponible à des styles différents. Ce n’est pas un hasard, disais-je, si, dans de nombreux cas, les scientifiques recourent au langage de la poésie pour rendre compte de ce qu’ils découvrent ou de ce qui leur arrive à eux-mêmes dans le processus de la découverte. Je n’ai jamais cru à la fable du scientifique à l’âme aride.

Peut-on encore concourir ensemble à créer une langue qui poursuive passionnément le Réel?

Ce n’est pas un hasard si Les Murray, poète australien, observait non sans ironie dans un poème que Newton, en voyant tomber la pomme, avait eu une idée géniale. Il ajoutait aussi que si M. Newton s’était demandé également comment cette pomme avait fait pour arriver là-haut, il aurait découvert une « physique plus vaste ». Nous sommes tous ici pour cela.