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Il soleluna della traduzione

Il soleluna della traduzione

 

 

Se fossimo in paradiso non ci sarebbero traduttori.

Non significa che i traduttori non andranno in paradiso, naturalmente, anche se è alto il rischio di giocarselo quando si mettono le mani in certi capolavori! Ma se fossimo nella condizione descritta da tanti racconti primari, nel giardino diletto dell’Eden, potremmo gustarci le lingue altrui afferrandole fino in fondo. Non sarebbe solo facile intendere Rimbaud o la Dickinson in originale, ma capire anche cosa diavolo dicono a volte i nostri figli o cosa vogliono davvero dire le donne in certi momenti. Babilonia non è solo in biblioteca. Ma nei tinelli, spesso, nel letto, negli uffici. Insomma, se fossimo in Paradiso e se la torre di Babele non fosse la prima delle nostre grandi torri crollate, ci sarebbe evitata la fatica del tradurre. La quale è accettabile, con il suo fallimento e il suo entusiasmo, solo a partire dal prender atto che no, non siamo in paradiso. La maggior parte dei fraitendimenti a proposito della traduzione (e non solo) nasce dal non voler accettare questa evidenza. Che è come dire: siamo nel limite, la creatura umana sperimenta una condizione di limite che lo segna fino nella esperienza più intima e libera: le parole scambiate con il simile. Quando poi queste parole si accendono, si mobilitano per quella “tensione” che Ungaretti diceva essere il vero miracolo del linguaggio poetico, la necessità e l’avventura del tradurre si fa estrema. E spettacolare. Risulta impossibile, diceva Dante, volgere in altre lingue parole “per legame musaico armonizzate”. E certo se intendiamo la traduzione come eliminazione delle differenze, come un dire “quasi la stessa cosa”, ogni traduzione è solo un tradimento. Ma la traduzione non è questa banalità. E Dante –che traduce e riecheggia tanti versi da altre lingue nella sua commedia- come tutti i poeti autentici sa bene che l’obiettivo di una traduzione non è inseguire il sogno impossibile di un annullamento delle differenze. La traduzione è un incontro. Non si tratta di inseguire un irreale grado zero di differenza, di attrito. Anzi.  L’esperienza del tradurre ci regala il contrario dell’assottigliamento. Ci offre il disastro e l’amore. Lo sanno tutti i poeti che vi si cimentano e lo sanno anche i traduttori che se autentici condividono il felice magone d’essere scrittori. Ma questo spettacolare fallimento rispetto a una idea astratta, presuntuosamente paradisiaca e ricattatoria della traduzione è invece una specie di gloria, umile e luminosa, una vittoria senza orgoglio. Una festa di incontri. Giorgio Caproni, ritirando il premio Mondello per la traduzione di Céline, diceva che per lui scrivere e tradurre erano esperienze analoghe. Disastro, festa. Una caccia infinita. La traduzione è la condizione in cui siamo. Caproni aggiungeva che tradurre un’opera significa salvarne il “movimento”. Ci mise anni e tentativi mai compiuti per ridare il “movimento” dei Fiori del Male. E ora che anch’io ho tentato nuovamente l’azzardo, dopo averli tradotti già vent’anni fa come un pazzo, ora, ancora più pazzo, vedo come è avventuroso vivere e restituire quel “movimento”. Attraversare i Fiori del male non significa solo immergersi in un’opera che continua a scandalizzare gli estensori dei canoni  più in voga (non lo trovate nelle lezioni di Calvino e nemmeno in Bloom), e fare un viaggio sotto le etichette che lo hanno reso familiare e innocuo (come “maledetto”). Poeti maledetti, ma dovremmo dire assoluti, avvisò Verlaine aprendo la celebre loro antologia. E l’assoluto in Baudelaire è conosciuto e sperimentato dentro il dramma di una contraddizione, di una agitazione dello spirito nella condizione del male. Insomma, in un movimento che va contro ogni presunzione di ridurre l’uomo a quel che la filosofia, la politica, la scienza o la morale volevano ai suoi tempi (e ai nostri). Tradurre Baudelaire ha significato accordarsi con questo movimento splendido e tremendo. Altri traduttori, ad esempio Raboni, non vollero farlo. Non osarono. Io non mi sono accontentato di soluzioni corrette o preziose, ma ho azzardato. E ho messo la mia voce al servizio della sua. Con il rischio totale di una sconfitta, di ogni rimostranza, di ogni strano frutto. Ma non si può tradurre con il “preservativo”. Non si può tradurre senza accettare il rischio totale. La voce nella voce. Che è come dire il corpo nel corpo, l’anima nell’anima. Del resto Leopardi parlava di traduzioni che devono essere una “eco”, una “risonanza” come ricorda Giuseppe Mazzetta sulla Yale Review in un articolo sulla nuova traduzione del recanatese a New York. Il dibattito “teorico” è il medesimo da sempre. Mario Luzi avvertiva che la traduzione è un problema empirico, si gioca ogni volta senza l’assicurazione di una norma che a priori garantisca contro infortuni o rischi. Come ogni amore, ogni amicizia. Vittorio Sereni parlava di un “esercizio infatuato”, la pazienza dell’esercizio e il rischio dell’innamoramento. Non è vero che tradurre significa tradire, ma al pari dell’esperienza dello scrivere poesia (e dell’amore) è inventare obbedendo. Dante obbediva al “dictare” d’amore, non a un momentaneo sentimento, ma a quel che move il sole e l’altre stelle, così il traduttore deve ob-audire, ascoltare molto la voce del poeta che ha tra le mani. Una obbedienza che chiede di mettere in gioco tutta la libertà e l’invenzione. Una disponibilità all’esilio, una aumentare scomparendo. Il traduttore diviene per questi motivi un vero autore, e non un accessorio della letteratura.