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da Il fuoco della poesia

da Il fuoco della poesia

 

Introduzione

 

Se ne fotte se non la chiamano più regina.

Lei lo è, anche se il trono è finito chissà dove, e la corte è dispersa.

La voce è forse un poco arrochita. Ma quando si propaga nelle stanze, per i corridoi pericolanti e per le scale che da tempo quasi nessuno percorre,  ridiventa la sua voce di ragazza, ritrova il suo tono, la nota. E la sua eco è sempre quella. Non c’è chi, anche tra coloro che stanno combattendo per un pezzo di stoffa o un cartone di riso, non la riconosca. E nel gesto, in certi lampi degli occhi, si vede ancora benissimo da dove viene la Signora.

Io sto vicino ai gradini. Mi ubriaca la mente, la accende. Mi fa essere più ragionevole e più matto di libertà. Mi sbatte contro il muro. Mi lancia verso la grande aria del mare. E poi sosta. Lascia appesi col cuore alla luna. Sempre notte, sempre giorno. Non so cosa farci. E’ lei, la poesia.

 

         “Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore

rida la primavera…”

 

Dice così, ad un certo punto, in un crescendo visionario e lucido, il canto notturno del Pastore Errante nell’Asia. Lo scrisse Giacomo Leopardi. Fu incuriosito da un giornale di viaggio in cui si parlava di certe popolazioni dell’Afghanistan. Ispirato dalla cronaca. Alla luna si rivolge, dice di non sapere nulla del mistero della vita. Nulla su dove va, né sulla fame, sulla noia che lo punge. La poesia lo porta a quel punto. A rivolgersi alla luna. Con una supplica urgente, quasi imperiosa, segnata in quella ripetizione (“Tu sai, tu certo”). Lei lo sa, lo deve sapere a che cosa ride la primavera. A che amore si rivolge ? O è un riso demente ? Un sorriso a nessuno ?

Sono questi i capolavori della Signora. Robetta, si dirà. Aggeggi di nessuna importanza. Qualche banda di trafficanti le ha fregato la corona, ma lei resta al suo posto, i capelli sciolti. Ama il suo paese, anche quando gli vomita contro urla e offese tremende. Anche se molti dicono che parla a vanvera. Che non serve a niente. Invece serve a tutto. Ad accendere i nervi, le menti, l’anima se qualcuno ce l’ha ancora, così che si accorgano che la vita accade, che sta accadendo. La primavera, la luna, la notizia minuscola in cronaca, il brivido dell’aria, del respiro… La poesia mette a fuoco la vita.

Qui ci sono delle poesie ad aprire capitoli in cui cerco di mettere a fuoco il nostro tempo. Quelle poesie sono la messa a fuoco. La poesia appartiene a quella esperienza della lingua in cui si prova a dire  “quel che non si sa”. Accade a tutti, non solo ai poeti. Se qualcosa ci colpisce davvero (un amore storto o dolce, un dolore, un accidente qualsiasi imprevisto, una notizia, o una città che si apre ai nostri occhi quando giriamo l’angolo) allora le parole, ameno per un istante, non riescono più ad essere “solite”. La lingua, per così dire, si riaccende. E si cercano le parole per mettere a fuoco quel che ci ha colpito. Come quando diamo dei soprannomi alle persone amate, ai piccoli o alle donne. Vengono, quei soprannomi. Sembriamo scemi. Diciamo: cucciolo mio, cavallino, diciamo: stellina mia, o dromedario mio, o cosa diavolo ci viene da dire. Sono un modo per decorare quelle presenze, come posare un fiore su quei capelli. Ma sono anche di più: si tratta del modo primario, più naturale che abbiamo per cercare di mettere a fuoco quel che ci colpisce in certe presenze.

La poesia poesia non nasce in strani laboratori della lingua, tra amanti di libri polverosi. Nasce per la strada, e ovunque, quando un tizio che può avere una vita normale o speciale, o una vita così così, poco importa,  si lascia colpire dal continuo avvenimento dell’esistenza.

Indicherà la luna, ne proverà a mettere a fuoco la presenza amica o forse indifferente…O una ragazza in bicicletta, o una notizia dura sul giornale. La chiamavano ispirazione. E’ una parola antica e giusta. Una parola senza più corona. A volte anche lei ondeggia un po’ ubriaca o smarrita. Ma il suo sguardo e i suoi gesti non falliscono. Il mondo chiede di essere messo a fuoco al di là delle prime apparenze. Ci invita. I poeti fanno questo lavoro con le parole. Altri lo fanno con alambicchi e microscopi. O con l’aratro sul campo o lo scalpello sul marmo. Per cercarne il segreto. Che non smette di parlare, di sollecitare.

Dante fu colpito dall’avvenimento di Beatrice, “venuta da cielo in terra a miracol mostrare” e volle mettere a fuoco il senso di quell’incontro. Perciò scrisse la sua fantastica Commedia. Aveva la vita come motivo, come motore del suo poema del movimento. E tanti lo leggono o l’ascoltano per mettere a fuoco la propria vita.

Occorre scrivere bene, darsi da fare parecchio per far sentire la voce del mondo. E’ come uno che dev’essere intonato e aver esercitato molto la voce, per afferrare il canto che gli è chiesto di restituire. Insomma per quel che legge sullo spartito, fatto di segni come la realtà di ogni giorno, e che insegue nei movimenti della mano del direttore del coro. Occorre lavorare parecchio, perché il canto venga e addirittura sembri naturale, elementare. Come in ogni lavoro. Il lavoro dei poeti è avere una voce che dia voce al reale e perciò parli alla vita di tutti.

Quando si ascolta una poesia di Leopardi o di un vero poeta, non ci si commuove per la vita di lui, ma per la propria. La si sente risuonare nelle parole di un altro, a sua volta mosso da qualcosa che si muove nel reale. Per fare esperienza della poesia, come dimostra tutta la sua storia, non occorre essere esperti di letteratura. Occorre essere vivi, disposti al continuo evento del mondo e del suo segreto. In un altro libretto, che si chiama appunto “La parola accesa”, ho provato a dire qualcosa di sensato su cosa è leggere.

In questo tempo duro chi non è solo un sopravvissuto fa esperienza della poesia. Non c’è niente di peggio, diceva il grande Péguy, che avere un’anima bell’e fatta. Una anima confezionata. La poesia rompe le confezioni.

E’ marzo. Fuori la primavera ride. Vedo bande di nichilisti e di clericali che si danno addosso sui giornali. Vedo che c’è un sacco di gente che trema nel cuore. Vorrebbe sapere a qual suo dolce amore rida la primavera, o se qui è tutta una demenza. In tanti, quando posano le maschere con cui lavorano tutto il giorno, fuori dalle fabbriche o dagli uffici, se ne stanno con la vita tra le mani, come sbigottiti e confusi d’averla.

Apro le porte a vetri di questo ascensore. Scendo nel cuore di un’antica città italiana. Ieri notte era frenetica, vivace e inquieta. Gente di diverse razze si mescolavano per le strade, alcuni con una luce più forte, determinata negli occhi. Altri più inquieti, anche se lievemente svagati. Alcuni sembravano imbambolati o spenti, occhi cùpidi. E’ presto, gli archi dei portici quasi bruciano nella prima luce del sole, ci sono ancora le bottiglie per terra.

Ti voglio scrivere una lettera, amore. Poi farò il mio viaggio con la regina tra il cielo e il fuoco di questa epoca.

 

 

 

 

 

 

 

 

Cap I

Una lettera

 

Cara Q,

 

E’ un tempo dove tutto cambia così rapidamente, amore mio. Sembra di stare tutti nel vento.

Cosa è questa fame, che sembra distratta e quasi vergognosa, che però morde, e così forte morde ? Cosa è, non lascia la presa delle radici del cuore e, certe volte mentre siamo per strada, stringe anche il respiro ? Cos’è che non vogliamo perdere, e come cani, a volte proprio latrando come bestie e battendo i pugni sulle porte o i pugni degli sguardi, o altre volte sorridendo inconsapevoli, fermi contro lo stipite di una porta ricordando una gioia, una voce, che cosa difendiamo di noi ?

Arrivano folate di canyons lontani, fiati morti, o echi di canzoni…O è come se fossimo tutti al cinema. Si mangia, si ama, ci si arrabbia, questo cinema è grande, ci puoi viaggiare in automobile, passano pure i funerali e nascono bambini, e tutti almeno con la coda dell’occhio guardiamo il grande schermo, onnipresente, dove vanno e vengono immagini strane. Di alcune riconosciamo qualcosa. Di altre no, non capiamo bene di cosa si parla in questo cinema che è però anche il film dove siamo finiti. Le lasciamo passare, molte speriamo che passino in fretta. E’ la nostra vita. Tutta lì ? E noi, che cosa siamo ?
E’ un tempo dove tutto cambia, sotto i nostri occhi. Guardo i tuoi: sbigottiscono. E rapide gioie corrono alternandosi con lampi di terrore. E a volte una luce di dolore così acuta, così da morire…Mi piaci perché tu, più di tanti altri, ogni tanto ti fissi, e guardi il cinema del cielo, bellissima nella tua inquietudine, e poi mi sorridi. Una corda mi attraversa in quell’istante. Lega il profondo del cielo al fondo degli inferi quotidiani. Qualcosa che c’entra col senso del destino. Lo chiamo amore.

Salveremo la poesia del vivere ?  Crescerà ancora nelle nostre braccia e nel sangue dei figli la dura gioia di essere uomini ? Si deve guardare bene, non fermarsi alle apparenze che ci assediano. E scansando le maglie sempre più strette in cui ci stringono giornali idioti, programmi vanitosi e inutili, e comunicazioni-imposizioni banalissime, forse si può ancora trovare la vita nei suoi elementi segreti, inquietanti e gentili. La terra terra, l’acqua acqua, i cambi di luce su un viso, il vento sui crinali o all’improvviso per certe strade, sotto i portici o sotto il getto alto di tangenziali …

Molti pensano che si possano ancora interpretare i tempi con le parole della politica. Alcuni ripetono ormai meccanicamente come dei mantra le ultime nozioni di economia. E altri con il libro di diritto aperto cercano di inseguire gli eventi. E i giornalisti!…A molti di costoro questo vento sbatte sul petto e sul viso i loro grandi fogli, le pagine e loro sbraitano, con le parole negli occhi, che poi volano via. O parlano parlano parlano da video in cui è azzerato il volume, come quelli esposti in vendita nei grandi magazzini. Non sembrano anche a te come dei clown lasciati in città da un circo che se ne è andato altrove ? Continuano a recitare, a inventare gags, ma il loro spettacolo è finito. Non verranno da loro, e dalle loro tribune le parole per leggere e per dire le urgenze di questo tempo. Le parole adeguate per non stancarci di essere qui. E nemmeno quelle adatte per farci lavorare. Cioè per farci sperare; la speranza è la virtù lavorativa, costruttiva. Virtù bizzarra, operaia. Non verranno da costoro le parole per non farci fermare sulla soglia di casa con l’orrore che riempie la bocca. Non saranno loro. Che riusciranno a tener vivo con le loro parole quel che in noi non vuole morire.

Amore, non avere paura, la notte è piena di fuochi. Non so cosa sono, se lampi di vedette, o falò di esuli. O forse roghi di battaglia. Ormai ne brillano non solo le città ma anche le colline. Laggiù si vedono anche nell’aria del mare. Non avere paura, teniamoci per gli occhi. Ho un pugno di poesie, per guardare in questo strano tempo, dov’è sempre notte, sempre giorno…

Non sarà un libro ordinato. Ma leggilo come una lettera che ti mando. Dove si passa di palo in frasca. Mi è sempre piaciuto questo modo di dire. Di palo in frasca. Come se almeno nel dire, nelle parole ci fosse la libertà di mettere insieme, avvicinate, due cose che in teoria non lo dovrebbero essere mai. Che so, un elefante bellissimo e la bidella della scuola. Mi pare invece che il mondo sia stato creato passando proprio “di palo in frasca”. Con una libertà assoluta di avvicinare cose che apparentemente non c’entrano. Ad esempio anch’io e te, non c’entravamo. Eppure…In questo niente di spazio che è la Terra, tra milioni di galassie e di corpi celesti con infinite composizioni, c’è il deserto arido e ci sono le piste piene di sciatori come puntini che scendono giùùùùù. O forse non è tutto solo un casino. Cioè è un po’ un casino e un po’ no. A guardar bene ci si può leggere dentro qualcosa si interessante in questo “mondo di palo in frasca”. Come quando vai a New York, e gli edifici sembrano costruiti lì a caso uno vicino all’altro: un grattacielo di mille piani di cristalli svetta vicino a una vecchia casa stile anni ’50, un grande ponte sopraelevato appare in fondo a un vicolo minuscolo. Come anche a Palermo, o in tante altre città cresciute nella storia, tra ferite e crisi. Ma a guardarle sembra di vedere qualcosa di armonico. Non l’armonia che si può prevedere, ma che puoi riconoscere. Non l’ideologia, ma la storia quando pure tra crisi e dissipazioni è mossa da una cosa chiamata speranza.

Se ti annoia questo libro lascialo perdere. E comunque puoi saltarne dei pezzi. O leggere solo le poesie. Mi andrà bene lo stesso.

Mi sono steso febbrile sul corpo dei giorni e sul corpo del mio signore amore. Rapito dalla poesie dei fratelli e dei grandiosi che ho messo tra queste pagine, vicino a fatti che chiedevano di non tacere. Ho avvicinato due cose che in genere vengono tenute distanti. La poesia e la cronaca. Le tengono lontane perché altrimenti si crea qualcosa di esplosivo. Una mina nel pensiero, qualcosa che fa saltare in aria come fantocci tutte le loro chiacchiere. Del grande poeta russo Osip Mandels’tam si diceva che quando iniziava a comporre si riconosceva dal fatto che iniziava a muovere le labbra. Come se iniziasse a bisbigliare. Il poeta infatti rumina i suoi versi, che poi gli escono, se uscire devono, come farfalle dalla bocca.

Anche qui, più che una riflessione, troverai un rompersi di crisalidi. Sollecitato dalle stagioni e dalle sorprese dolorose e meravigliose del mondo.

Questo libro ha una pensosità piena di farfalle, piena di mine.

 

 

        


 

 

 

 

Cap II

Appartenenza, libertà

 

I. Il corner lo batte Michelangelo

Sono pochi versi, ma potrebbero essere migliaia. Che cantano o gridano delll’Italia. Questa ragazza amata dai poeti. E riempita d’invettive, per secoli, da Dante fino ai nostri giorni, da quegli stessi poeti. Perché la amano fino agli spasmi dell’ira quando si lascia avvilire, o si vergogna di se stessa... I primi sono di colui che è tra i pochi nomi universali, l’Artista. Un ragazzo italiano, che nato in un borgo d’una valle dura e meravigliosa, divenne Michelangelo. Parla di quello sperdimento d’amore che in Italia trova sempre il suo migliore teatro. Poi versi di Pasolini, uomo di ideologia e passione, pochi dove si parla di “umili” con parole che riecheggiano Leopardi…La poesia, come ogni arte, esiste come tradizione e nuovo, come un darsi la voce,  passarsi parole, modi di dire…E infine da un poemetto dinamitardo e potente di uno scrittore contemporaneo, un amico.  Due versi soli, due spari.

 

 

Michelangelo, dalle Rime

 

Come può esser, ch’io non sia più mio ?

O Dio, o Dio, o Dio!

chi m’ha tolto a me stesso,

c’a me fosse più presso

e più di me potesse, che poss’io ?

O Dio, o Dio, o Dio!

Come mi passa il core

chi non par che mi tocchi?

Cosa è questo, Amore,

c’al core entra per gli occhi,

per poco spazio dentro par che cresca

e s’avvien che trabocchi ?

 

Pier Paolo Pasolini, L’umile Italia

“Come s’assiepa il secolare

loro gridìo di servi indenni

da bassezza…

Loro è la sera, loro è l’accento

Della campana; s’è il dolce sabato,

loro è l’allegrezza che il vento

da orti, aie, osterie, lento

e quasi religioso, dirada”

 

Aurelio Picca, L’Italia.

“L’Italia è morta

L’Italia sono io”

 

 

 

Mi fa impressione sentire che c’è gente che si vergogna d’essere italiano. Perché, dice il vergognoso, non gli va di somigliare, che so, all’on. Gasparri, o non ci sta ad essere compreso in certi clichè che il mondo intero applica agli italiani: furbi, pappagalli, pigri, screanzati, mammoni, etc

Pur di non essere annoverato in questa famiglia, il connazionale fa di tutto per differenziarsi. Loda altri paesi, le ferrovie, le poste di altri paesi, i concorsi, i ristoranti, le scuole, e i politici di altri paesi. Dice immancabilmente che ogni volta che torna l’Italia gli pare più trasandata. Lui è uno che viaggia. “Ogni volta che torna” si sente meno italiano, meno a casa sua etc etc. In parte ha ragione, poveraccio. Essere italiani in giro per il mondo è bello ma a volte un po’ una rottura. Non è più il tempo in cui ti guardano come se avessimo tutti un mandolino o una scena dell’Aida sullo sfondo, o come minimo uno zio mafioso o un cugino cardinale…Però negli Stati Uniti, e non solo, ti sorridono come si sorride a qualcuno che arriva ad una festa con un travestimento simpatico ma un po’ passato di moda. Il problema è dunque uno solo: siamo il museo delle cere o sotto il cosiddetto “Italian-style” ci sono ancora cuore e mente accesi ? Pasolini gridava d’essere “una forza del passato”. Gli italiani sono considerati tali, non ce ne dovremmo vergognare. Il futuro e il presente non hanno forza, non sono niente, solo occasionalità confusa se non sono investiti da una forza del passato. Se tale forza è carica, energetica di ideale, presente e futuro si animano, se no inaridiscono, e soffocano. I più snob tra gli anti-italiani sono arrivati a non tifare Italia ai Mondiali di calcio. In nome dell’indignazione per gli scandali, in nome di mille motivi. Tifiamo Gahana, dicevano, sentendosi pure così un po’ più vicini ai poveri del sud del mondo… Beh, mi fa impressione uno che rinuncia ad essere concittadino di Leonardo da Vinci per paura di essere accomunato a Russo Spena o a Previti. Che rinuncia ad essere conterraneo di Piero della Francesca. Che preferisce lasciarsi alle spalle la consanguineità con Giotto pur di non essere avvicinato a Mussi o a Calderoli. Mi sembra una cosa da scemo. E’ possibile non vedere Michelangelo avvicinarsi alla bandierina del corner o Caravaggio prepararsi al dischetto del rigore ? O Dante, nasuto, ingobbito e felpato come il grande Domenghini, scattare all’ala destra ? Insomma, quando diciamo Italia che cosa ci viene in mente ? A noi italiani dico. Certo, se all’udire il nome Italia ci si para innanzi solo la formicolante salitella di Montecitorio invece che lo sperdimento della Pietà di Michelangelo, e quel suo stupore d’esser rapito da qualcosa di più grande di sè…allora, ha ragione quell’arabo smagrito e acuminato di Magdi Allam quando dice che lui ama l’Italia e noi non si sa…Certo, l’Italia è una, un mix di code a sportelli di uffici surreali e l’improvviso spalancarsi della prospettiva di piazza di Spagna, o del colonnato del Bernini. Orrore, caos defatigante e mediocrità se ne stanno avvinghiati e mescolati ai più forti capolavori. Lo sapeva bene il vecchio Ezra (Pound): di fronte a Venezia il cuore deve purificarsi per poter accogliere la bellezza.

 

Ezra Pound, Litania notturna, da A lume spento

 

O Dieu, purifiez nos coeurs!

                  Purifiez nos coeurs!

 

Oh sì, la mia strada hai segnato

                  in piacevoli luoghi,

E la bellezza di questa tua venezia

                  m’hai rivelata

Che la sua grazia è divenuta in me

                  una cosa di lacrime.

 

O Dio, quale grande gesto di bontà

                  abbiamo fatto in passato,

                  e dimenticato,

Che tu ci doni questa meraviglia,

                  O Dio delle acque?.

 

O Dio della notte,

                  Quale grande dolore

Viene verso di noi,

                  Che tu ce ne compensi così

Prima del tempo?

 

O Dio del silenzio

                  Purifiez nos coeurs,

                  Purifiez nos coeurs,

Poiché abbiamo visto

La gloria dell’ombra della

                  Immagine della tua ancella,

Sì la gloria dell’ombra

                  della tua Bellezza ha camminato

Sull’ombra delle acque

In questa tua Venezia.

                  E dinnanzi alla santità

Dell’ombra della tua ancella

Mi sono coperto gli occhi,

                  O Dio delle acque.

 

O Dio del silenzio,

                  Purifiez nos coeurs,

                  Purifiez nos coeurs,

O Dio delle acque,

                  illimpidiscici il cuore

                  Poiché ho visto

L’ombra di questa tua Venezia

Fluttuare sulle acque,

                  E le tue stelle

 

Hanno visto questa cosa, da loro corso remoto

Hanno visto questa cosa

                  O Dio delle acque,

Come le tue stelle

A noi son mute nella loro corsa remota,

Così il mio cuore

                  in me è divenuto silenzioso.

 

                  Purifiez nos coeurs,

O Dio del silenzio,

                  Purifiez nos coeurs,

O Dio delle acque.

 

 

Ma qualcosa è successo per cui molti si stanno abituando all’orrore, e perdono familiarità con la bellezza. Si stanno imbambolando con la mediocrità che avanza da ogni canale, invece che cercare la sorpresa che ci attende ovunque. Li vedi, giovani o anziani, e specialmente di mezza età, risentiti di tutto e sbigottiti di nulla, aggraziati e mostruosi, chiacchierare di nulla, passare davanti al Castello Sforzesco a Milano cianciando di soldi, telefonini e veline. Sapendo e non sapendo che lì dentro è custodita l’ultima Pietà di Michelangelo. A scuola, del resto, tanti insegnanti ormai afflitti da artrosi dello spirito e con il brodo in testa, soli e quindi senza passione, accusano il ministero, la tv, le famiglie, i telefonini per il fatto che i ragazzi non si appassionano a Dante. E mentre a scuola e in università non si insegna più a leggere la Commedia, piazze basiliche e palasport si riempiono intorno ad attori di ogni specie che leggono di Beatrice, di Ulisse, di Bernardo…Fantastica, pericolosa schizofrenia in cui l’Italia sta andando a ramengo.

Alla paresi che ha attanagliato spiriti e istituzioni preposti a tramandare il bello, si affianca selvatica, furiosa e irriverente la fame di bellezza che anima i corpi italiani. Ancora una volta, la battaglia contro la barbarie e il deserto si combatte a colpi di estro, di teatro, di poesia. Non di organizzazione, non di programmazione.  Ma l’estro non è un fiore del deserto. E’ l’emergere di un valore in una trama di consuetudine, di educazione. Se tale trama si sfilaccia e corrompe, l’estro non nasce. E potrà passare per estroso qualsiasi pirla che attira l’attenzione cianciando “Italia, Italia” o “arte, arte”, non importa come, e per quali fini.