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D'Annunzio un tragico e la ricerca della gioia

D'Annunzio un tragico e la ricerca della gioia

 

 

La ricerca della gioia

 

Grazie, buongiorno. Io vorrei assolvere al compito che gli amici mi hanno dato di leggere insieme un testo, e commentarlo non troppo lungamente. Prima di leggerlo e di fermarmi su alcune delle tante cose che si potrebbero dire, do una avvertenza, a me prima ancora che a voi.

Nel gergo scolastico (e anche un po’ di queste occasioni) si dice: adesso facciamo D’Annunzio, adesso mi faccio D’Annunzio, come se fare un autore volesse dire in poco tempo, più o meno, farsi un’idea di cosa questo autore ha portato come contributo. Credo che dobbiamo liberarci da questa cosa. Io sono contrario ai programmi scolastici, mi sembrano quasi sempre finti, e questo non vuol dire che non bisogna studiare! 

I programmi scolastici sono finti, cercano inevitabilmente, con l’impianto di scuola che capi e professorivogliono avere, con cui io non sono d’accordo, di costringere un’enciclopedia infinita di nomi in poco spazio. Sono programmi tagliati in maniera parziale quando non faziosa. 

Che senso ha, in una scuola superiore, leggere D’Annunzio e non leggere Rimbaud. O, che senso ha leggere Montale senza avere incontrato prima Baudelaire o Elliot, non ha senso! Però si fa. Visto che di programma e di scuola enciclopedica vogliono morire, che muoiano. 

Comunque, programma o non programma, l’avvertenza da avere è un’altra: che tu non ti fai un autore, così come ti fai un ragazzo o una ragazza. Non è che te lo fai, non te lo consumi in poco tempo, non puoi appropriartene. Così come nessuno si può appropriare di nessuno, come nessuno si può appropriare di te.

Se vi dicessero: mi sono fatto Davide, un po’ mi stonerebbe. Voglio dire che, leggere un autore, o anche un solo testo di un autore come facciamo adesso, significa entrare in un rapporto tendenzialmente infinito, cioè in qualcosa che non è mai fatto e finito, perché avere a che fare con l’arte, essendo l’arte il prodotto forse più strano, e quindi più umano, dell’uomo, avere a che fare con un’opera d’arte è analogo, non proprio identico, ma analogo all’avere a che fare con la persona, con le persone. Quindi interpretare un testo, come faremo, significa non definirlo in cinque minuti, cinque giorni, cinque anni di scuola: non significa definirlo. Dobbiamo uscire dall’idea che capire sia de-finire, come mettere i confini a una cosa, così la faccio, me la posseggo. L’interpretazione significa entrare in un dialogo tendenzialmente infinito. Così come una persona non è che la capisci, la definisci, ma la com-prendi, cioè la prendi con te. La prendi con te, se è un’amicizia o un amore vero, tendenzialmente per tutta la vita. Anche tra vent’anni D’Annunzio, o la signorina che hai scelto, o l’amico che hai, ti dirà delle cose, ti sorprenderà ancora, ti metterà in questione. 

Entrare in rapporto con un testo, come facciamo adesso, significa non avere paura dell’infinito, non temere una prospettiva infinita, non aver paura della vita. Solo chi ha paura della vita tende a definirla, a limitarla per poterla possedere. Chi ha paura di te tende a delimitarti, a capirti nel senso di possederti, perché ha paura di qualcosa che, infinitamente, in te vive e può inquietarlo. Allo stesso modo, in un autore o in una poesia, devo lasciare credito al fatto che D’Annunzio, se lo leggo oggi o tra vent’anni, mi sorprenderà ancora, così come la persona che amo, se la vedo tra dieci anni, mi dirà ancora qualcosa, mi sorprenderà ancora. Devo dare credito a questo rapporto di comprensione che è diverso dalla definizione. Se non sei disposto a questo, se non sei disposto, a scuola, a iniziare questo incontro con gli autori, la scuola non serve a niente. Sai solamente dire: ho fatto D’Annunzio, Manzoni, Dante… ma non hai fatto niente: non hai iniziato nessun rapporto interessante. 

La scommessa, che mi sembra sia anche dentro a questi Colloqui, è che invece con questi autori inizi, magari qui, un incontro o un dialogo che tendenzialmente è infinito. Vi assicuro che leggere, come faremo adesso, La sera fiesolana, a scuola, mi ha detto pochissimo, mi ha colpito pochissimo. Adesso quasi mi mette in ginocchio, perché è un testo di una bellezza, di una grandezza, di una tragicità tale che quasi ti viene da cadere a terra e dire: ma cos’è? 

 

Fresche le mie parole ne la sera

ti sien come il fruscìo che fan le foglie

del gelso ne la man di chi le coglie

silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta

su l’alta scala che s’annera

contro il fusto che s’inargenta

con le sue rame spoglie

mentre la Luna è prossima a le soglie

cerule e par che innanzi a sé distenda un velo

ove il nostro sogno si giace

e par che la campagna già si senta

da lei sommersa nel notturno gelo

e da lei beva la sperata pace

senza vederla.

 

Laudata sii pel tuo viso di perla,

o Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace

l’acqua del cielo!

Dolci le mie parole ne la sera

ti sien come la pioggia che bruiva

tepida e fuggitiva,

commiato lacrimoso de la primavera,

su i gelsi e su gli olmi e su le viti

e su i pini dai novelli rosei diti

che giocano con l’aura che si perde,

e su ’l grano che non è biondo ancóra

e non è verde,

e su ’l fieno che già patì la falce

e trascolora,

e su gli olivi, su i fratelli olivi

che fan di santità pallidi i clivi

e sorridenti.

 

Laudata sii per le tue vesti aulenti,

o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce

il fien che odora!

Io ti dirò verso quali reami

d’amor ci chiami il fiume, le cui fonti

eterne a l’ombra de gli antichi rami

parlano nel mistero sacro dei monti;

e ti dirò per qual segreto

le colline su i limpidi orizzonti

s’incùrvino come labbra che un divieto

chiuda, e perché la volontà di dire

le faccia belle

oltre ogni uman desire

e nel silenzio lor sempre novelle

consolatrici, sì che pare

che ogni sera l’anima le possa amare

d’amor più forte.

Laudata sii per la tua pura morte,

o Sera, e per l’attesa che in te fa palpitare

le prime stelle!

 

E’ una poesia molto bella, e molto nota, che qualche critico tiene un po’ a distanza. Contini, non a caso non la considera nella sua antologia, non a caso: è una poesia che ha dentro qualche cosa di inquietante. Vediamo che cosa. D’Annunzio ha uno stile che sovrappone tante cose, anche qui si capisce. Ci sono tanti omaggi: alla poesia del Duecento, con la perla, che è un tema degli stilnovisti… D’Annunzio, per dirla con uno dei miei maestri che voglio citare qui, Ezio Raimondi,  ha uno stile dove continuamente sperimenta. 

Sentite cosa dice questo grande e bravo professore, ve lo dico perché è un modo per capire e per intendere che cosa è lo stile per D’Annunzio: “A chi voglia seguire più da vicino la sperimentazione dannunziana nel suo movimento intricato di trapianti e di ricuperi o calchi stilistici, aggiornati di continuo da un virtuosismo attento e recettivo, si può produrre, tra i molti esempi possibili, quello di una pagina tipica del Libro delle Vergini, il giardino malato della Favola sentimentale, dove si specchia l’anima umbratile e crepuscolare di Galatea.”

È una sperimentazione. D’Annunzio con le parole sperimenta continuamente, e sperimenta trapiantando, recuperando, e facendo dei calchi stilistici dalla poesia precedente a lui, intorno a lui. Lui stesso dice che, per iniziare a scrivere, legge gli altri poeti in modo che l’inizio della poesia gli venga come suggerita dalla lettura. Allora uno perché sperimenta? Perché sta cercando qualcosa, come gli scienziati, che sperimentano perché quello che c’è non basta, se no non sperimenterebbero. La sperimentazione non è un’esibizione. Quando è vera, e D’Annunzio è un grande poeta dello sperimentare, non è solamente esibizione.

Questo vale anche nella vita: uno spesso dice di aver fatto un’esperienza eccezionale, ma non ha fatto un’esperienza, ha fatto una cosa strana. Quell’esperienza non gli ha portato nulla di nuovo, tant’è che la mattina dopo non si ricorda quasi niente. È un’esperienza strana, non una sperimentazione. La sperimentazione vera, l’esperienza vera, è quella che poi deposita nella tua coscienza e nel tuo giudizio qualcosa, ti fa acquisire qualcosa di nuovo. Tante volte, avendo fatto esperienze stranissime, invece, siamo uguali a prima: non abbiamo fatto veramente delle esperienze, non abbiamo sperimentato. Invece D’Annunzio è un poeta che sperimenta perché sta cercando qualcosa, vuole acquisire qualche cosa.

Lo dice molto bene in una pagina, che vi consiglio di andare a leggere, del Piacere, dove parla del verso, e dice che il verso è tutto, cioè: il verso, che è l’unità della poesia, è quella cosa attraverso cui fa parlare il mondo, conosce la realtà. Per questo, il cercare versi nuovi, sperimentare letterariamente le cose nuove, non è fine a se stesso, non è mai fine a se stesso in un grande poeta come D’Annunzio. Non è mai la sperimentazione intesa come fare esperienze strane, ma sempre per cercare. Questa è una differenza che nella vita ci sarà sempre: o sperimenti perché ti annoi o sperimenti per cercare. Sono due cose molto diverse, e in genere il primo tipo di esperienza ha come esito un aumento della noia, la seconda ha come esito la crescita, la fertilità, la fecondità, la generatività, il fatto che diventi più grande. D’Annunzio sperimenta, è un grande sperimentatore, sperimenta in tutti i modi, anche facendo una specie di bricolage. Questo anche nella sua vita, ma della sua vita non voglio parlare più di tanto, perché penso che per quanto D’Annunzio abbia esibito la sua vita, sia più interessante l’opera di D’Annunzio, mi interessa quello che rimane di lui, che sono le poesie e le sue opere.

Quello che lui ha costruito come artisticità (che non è la stessa cosa dell’arte) della figura, del personaggio, serve a colmare un vuoto. Qual è il vuoto a cui D’Annunzio risponde? D’Annunzio da una parte e Pascoli dall’altra, si confrontano con lo stesso vuoto in due modi apparentemente opposti ma simili. Il grande vuoto che questi grandi uomini sentono all’inizio del Novecento, che dicono molto bene e io provo a sintetizzare con mie parole, è il vuoto dell’io. Cioè: quando si dice io, non si sa più cosa dicono, perché essendo un io che ormai si è slegato da qualsiasi rapporto fondamentale, ontologico, è come se vagasse a mezz’aria senza, ormai, senza più legami.

D’Annunzio risponde a questa crisi dell’io, a questo vuoto dell’io, mascherandolo continuamente, mettendo tutte le maschere possibili, e cercando di espandere l’io al tutto, in modo che il mio io coincida con la natura, con tutto il mondo, con la realtà. Non c’è più distinzione tra me e il reale: io sono tutto, e tutto è me. 

Il prof. Gibellini diceva poco fa: un conto è amare una persona perché è altro da te, un conto è amare una persona perché è la tua immagine. 

D’Annunzio ha risposto alla grande crisi dell’io del Novecento, di cui si sono occupati Nietzche, Freud e tanti altri, ha risposto al vuoto dell’io, espandendo il suo io all’infinito, cercando di espanderlo all’infinito, diventando tutto, cercando di diventare tutto: tu non finisci mai perché tutto è te, tu coincidi con tutto. 

Diventando tutto: militare, soldato, poeta, politico, aviatore, museo, museo di se stesso… 

Questa è una questione da capire bene, scusate se mi soffermo un attimo, poi torno sul testo. Che cosa vuole dire la crisi dell’io? La crisi dell’io la sentite anche voi, la sentiamo anche noi, quando improvvisamente uno ti dice: ma tu chi sei? Se a questo non sai rispondere pienamente, quasi senza pensarci, se non sai rispondere quali sono i rapporti fondamentali che ti fanno, dicendo: io sono l’amico di, sono il figlio di, sono il moroso di, sono l’amante di, sono il marito di… se non sai dire di chi sei, l’io cos’è? Un palloncino che fluttua nel vuoto, e alla fine sei definito dalle mode e dal potere, cioè da chi ti vuole portare da qualche parte. 

Mentre, invece, l’io, come sappiamo per esperienza vedendo i bambini e vedendo la vita come cresce, vedendo, possiamo capire che noi siamo i rapporti che abbiamo, tant’è vero che se uno ci dice: ma tu chi sei? Rispondi: io sono di Forlì, sono l’amico di… Un io che non sa dire più un rapporto in cui si riconosce fondato è un io in crisi, un io vuoto. D’Annunzio prova a rispondere a questa crisi facendo un teatro infinito di questo io, mascherandolo continuamente, e devo dire che ci sapeva fare bene. Pascoli fa il contrario: rattrae l’io fino al fanciullino, il nido… Per non stare nel vuoto dell’io, uno lo espande, l’altro lo rabbercia, lo rimpicciolisce il più possibile, perché è un vuoto insopportabile.

Provate a immaginare cosa è stare un giorno senza sapere chi sei. Pensate esistenzialmente se per voi domani fosse un giorno in cui uno vi dicesse: tu chi sei? E voi non sapeste cosa dire. D’Annunzio è uno che ha preso sul serio fino in fondo questa cosa, non ci ha girato intorno. Ha preso sul serio questa crisi dell’io e l’ha affrontata, come ha voluto. Quella di D’Annunzio è sicuramente una grande ricerca, una grande sperimentazione tragica, perché D’Annunzio è un tragico, e come tutti i grandi tragici trova risarcimento, trova consolazione al tragico nel prezioso, nella preziosità. 

Come si vede anche in questa poesia, D’Annunzio, come tanti di noi risponde a un senso tragico dell’esistenza coprendola di cose preziose, di ninnoli preziosi, come risarcimento al fatto che la vita è una fregatura. 

Lui, da giovane, a vent’anni, scrive una frase, che poi ripubblica molto anziano, quando non voleva più vedersi negli specchi del Vittoriale. La ripubblica alla fine, come a dire che è una frase che lo comprende: la mia deserta conoscenza quadrata è questa, la mia concisa disperazione è questa, unicamente questa, immutabilmente questa: tutta la vita è senza mutamento, ha un solo volto, la malinconia. Il pensiere ha per cima la follia, e l’amore è legato al tradimento.

Questo è un pensiero tragico dell’esistenza: la vita è senza mutamento. Pensate a uno che ha mascherato continuamente se stesso e quello che pensa veramente ovvero che la vita è senza mutamento, cioè non c’è nulla che veramente cambia. Uno, che si è cambiato d’abito tre volte al giorno tutti i giorni, uno che ha cambiato casa, amanti, vita, politica, tante cose, e che aveva come pensiero vero che la vita è senza mutamento. Che nella vita non cambia niente. Questo è tragico! Perché? Perché dire che la vita è senza mutamento vuole dire che la vita non succede, perché la vita vera è mutamento. Lo sanno i biologi e i fisici, ma anche tu lo sai: una giornata vera è una giornata in cui è cambiato qualcosa. Se ieri non è successo niente, non è cambiato niente, ti viene da dire che non hai fatto niente. Non è successo nessun incontro importante, non hai visto una cosa nuova… se non cambia niente la vita è niente. Questa frase la scrive a vent’anni e la ripubblica alla fine della vita: lui ha un senso tragico dell’esistenza, e infatti scriverà, in una poesia terrificante dedicata alla sepoltura dei suoi cani, che l’uomo è il cane del suo nulla, un cane da guardia del proprio nulla.

Insisto: come tutti i grandi tragici non vuole dire che per lui, vivere questo è annoiante, o che passava una vita senza apprezzare le cose. Anzi! Tanto più è tragico il senso dell’esistenza, tanto più c’è la ricerca del ninnolo, dell’inessenziale: tanto più hai un senso cupo dell’esistenza, tanto più cerchi un risarcimento, una beatitudine in tutto quello che è prezioso, che è ninnolo, che è carino. Noi viviamo nell’epoca del carino: è tutto molto carino (che è una parola che non sopporto), c’è la ricerca del carino, perché il carino ti consola un po’ del fatto che la vita è senza mutamento. 

Viviamo nell’epoca del peluche. Pochi rapporti umani e molti peluche. D’Annunzio in questo è molto attuale: era uno che fa sembrare dilettanti tanti bricoleur della moda o del costume attuale. 

Come sapete questa poesia, La sera fiesolana, ha a che fare con un posto preciso, Settignano, dove c’era la Duse, dove D’Annunzio si circondava anche di altre donne. Ma sono fatti suoi.

È una poesia che inizia con una cosa strana: “fresche le mie parole nella sera / ti sien come il fruscìo che fan le foglie”. 

Fresche ti sien le parole cosa vuole dire? Cosa è una parola fresca? Una parola nuova, che non è imputridita o marcia. 

Il fruscìo che fan le foglie. È pieno di f, c’è qualcosa di frusciante anche nel suono.

Le foglie / del gelso, nella man di chi le coglie. Avete mai avuto in mano una foglia di gelso? D’Annunzio è un grande maestro di sensazioni. Servirebbe anche oggi, perché la nostra epoca è un’epoca povera di sensazioni, ne parla di continuo perché ne ha poche. A voi giovani, soprattutto, vi danno vivere con l’idea di avere tantissime sensazioni, ma in realtà ne avete pochissime, perché non toccate quasi più niente: non toccate più gli animali, la terra, le foglie, gli alberi. Toccate dei palmari, dei touch, facciamo dei gran touch ma non tocchiamo quasi più niente. Abbiamo pochissime sensazioni: un po’ di sfregamento tra i corpi, quando si fa sesso, ma non molto altro. Siamo una civiltà molto astratta, molto tecnologica. In questo senso rischiamo di perdere molto: se ogni tanto non prendi in mano qualche foglia, qualche pugno di terra, perdi molto. Vale più fare questo che fare tanti pensieri. 

È comunque una poesia che si basa sulla sensazione: fresche le foglie…

Poi c’è questa cosa molto bella: la scala che si annera nella sera. Viene buio.

Il fusto che s’inargenta, l’albero che diventa d’argento sotto la luna, mentre la luna è prossima a le foglie. E dice che la campagna già si senta / da lei sommersa (si sente quasi sommersa dalla luce della luna) e da lei beva la sperata pace.

Qui c’è un omaggio a Petrarca, sicuramente anche a Foscolo, con queste f e la sera. Gli omaggi letterari ve li diranno casomai i vostri professori, ce ne sono tanti. Di fatto, quello che mi interessava farvi intendere, è che siamo nella sospensione. Non dice: fresche ti sono, dice fresche ti siano: ancora non ci sono le parole fresche, non ci sono parole, non c’è ancora la luna, che dice essere quasi alle soglie, prossima alle soglie, la campagna già si presente, ma non è sommersa.

È una poesia che ci mette in una posizione di attesa. Siamo lì lì per sentire le parole, per sentire il fresco, per la luna, siamo lì lì per…

 

Laudata sii pel tuo viso di perla. Sapete tutti da dove viene questo laudato sii. Nessun poeta minimamente intelligente o dotato fa una cosa così per fare, o perché gli piaceva. Nessun poeta fa una citazione così importante se in qualche modo non vuole stabilire una questione molto grossa. D’Annunzio era uno che aveva molto presente la figura di San Francesco: usava la toponomastica Francescana per parlare delle sue case, parlava del convento, della clausura… la Duse era una devota di San Francesco. La poesia ha a che fare con questo, la casa a Settignano aveva una toponomastica di tipo francescano.

Comunque, al di là di tutte queste cose che si possono ricercare nei contenuti, uno che si trovasse davanti a questo testo si trova lì piantato, nel mezzo, un laudato sii. Evidentemente mi sta parlando di Francesco, o mi sta dicendo che ha Francesco di fronte, di fianco, dietro, mentre sto scrivendo questa poesia. 

Abbiamo detto che siamo nell’attesa di una sperata pace senza vederla: Chi ha in mente qualcosa su Dante, su come definisce la fede, capisce. 

Entra poi in campo San Francesco, questo Laudata sii. 

A scuola bisognerebbe fare quattro o cinque testi. Uno di questi testi è seicuramente Il Cantico delle Creature. In quel cantico il Laudato sii è rivolto all’Altissimo: è una lauda rivolta a Dio. 

Qui si capisce che la poesia non è rivolta a Dio. Laudata sii pel tuo viso di perla, / o Sera. Sera con la S maiuscola. Ha la maiuscola, ma non è Dio. È quindi una laude alle creature, non al creatore. San Francesco dice Laudato sii mie Signore per la sera, per la notte, per l’acqua, per il fuoco… D’annunzio dice invece: no! Laudata sia la Sera. Uno che sta facendo così sa che si sta confrontando con un grande testo, con una grande figura. D’Annunzio, in questo momento, non sta giocando. Nessun poeta giocherebbe con il Cantico delle Creature. D’Annunzio gli dice: “Francesco, io guardo te, e sono diverso da te. Tu lodi l’altissimo, io lodo le creature”. E D’Annunzio guarda a Francesco per un motivo molto semplice: sapeva che quello che a lui mancava, che era appunto la beatitudine, o la beat, come dicono gli Americani, l’essere lieti e beati, a lui mancava, Francesco ce l’aveva. Per questo D’Annunzio guarda come un lupo invidioso a Francesco: lo guarda come chi ha qualcosa che lui stava cercando. 

Laudata sii pel tuo viso di perla, / o Sera.

E prosegue: dolci le mie parole ne la sera / ti sien come la pioggia che bruiva / tiepida e fuggitiva… E’ assillato da queste parole che non arrivano. È una poesia che parla di parole che non stanno arrivando: pensate a che artificio retorico. È una poesia, quindi sono parole, che mi parlano, però, di parole che non arrivano. È una poesia sulla poesia, ha scritto qualcuno ma secondo me è limitata tale lettura. Queste parole che devono arrivare che cosa sono? 

C’è tutta la parte molto bella de La pioggia del pineto, di cui qui si trovano echi, e ci sono altri riferimenti francescani: i fratelli olivi / che fan di santità pallidi i clivi / e sorridenti. Se avete in mente gli ulivi davvero hanno le foglie che sono più chiare da una parte e dall’altra: la collina diventa davvero più chiara alla luce lunare, visto che le foglie si muovono col vento di notte, e il movimento dà un effetto di chiarore nel buio, di santità: l’olivo è associato per tanti motivi alla santità, dal Getsemani, a Francesco. D’Annunzio era stato ad Assisi in un memorabile viaggio, e si accorge che la luna riveste di santità la collina.

Eppure ripete Laudata sii per le tue veste aulenti, / o sera. 

E poi ancora: io ti dirò verso quali reami / d’amor chi chiami il fiume, le cui fonti / eterne a l’ombra de gli antichi rami / parlano nel mistero sacro dei monti; / e ti dirò per qual segreto / le colline su i limpidi orizzonti / s’incurvino come labbra che un divieto / chiuda. Le colline sono come una bocca chiusa che vorrebbe parlare, ma un divieto le blocca, blocca quella bella bocca. 

e perché la volontà di dire / le faccia belle. Le colline sono belle perché vogliono dire qualcosa, sono come labbra chiuse, che però hanno un segreto da dire, e io, scrive il poeta, ti dirò perché. 

E le faccia belle / oltre ogni uman desire, e le faccia belle oltre ogni umano desiderio;

e nel silenzio lor sempre novelle / consolatrici, così che sembra ti consolino (e questo è verissimo, io lo vedo perché abito su un alto crinale);

sì che pare / che ogni sera l’anima le possa amare / d’amore più forte. Le colline non ti stancano mai, le guardi e ti piacciono, sono un po’ come le onde del mare, ti piacciono sempre. Sono sempre uguali e ti piacciono sempre. Come quando ti innamori di una donna o di un uomo: è sempre uguale, ma ti piace sempre di nuovo. 

Laudata sii per la tua pura morte / o Sera. Per il tuo cadere, per il tuo finire.

E per l’attesa. Siam ancora in sospeso: parole che devono arrivare, sera che deve calare, colline che devono parlare, io che ti dirò parole fresche…

Per l’attesa che in te fa palpitare / le prime stelle! È un finale dantesco. Ed è ancora attesa.

Ma allora: cos’è che attendiamo? Cos’è che sta attendendo questo poeta, in mezzo alla natura, con la sua donna? Non c’è già tutto? Le colline sono belle, sei a Fiesole, che è un posto incredibile, sei con la Duse, che è anche un bel tipo. Cosa stai aspettando? Perché tutto quello che vedi intorno ti parla di qualche cosa che deve ancora arrivare, di qualche cosa che non c’è? Come se fosse taciuto per un divieto che non ti viene detto, e tu poeta dici: “io te lo dirò”, D’Annunzio pensava che il compito del poeta è svelare questo segreto, e questo segreto infatti lo dice, in qualche modo: verso quali reami d’amore…

Solamente uomini piccoli possono commentare D’Annunzio come se fosse piccolo come loro. Reami d’amore non vuole dire, appena, che si accompagna alla Duse. Reami d’amore vuole dire reami d’amore: che c’è qualche cosa in cui l’amore regna. Regna! Cioè: vale più di tutto. Allora: perché in una poesia così, tutta giocata sulla sospensione e l’attesa per la sospirata pace, D’Annunzio si mette a dialogare con San Francesco? Poteva scegliere tanti altri.

Perché San Francesco? Cos’è che sta cercando? In questa poesia, si vede che D’Annunzio cerca la musica. Non a caso D’Annunzio fu il primo scrittore a scrivere una sceneggiatura per il cinema, perché ammirava Wagner, cercava l’arte totale, cercava l’unità tra le tre arti, la danza, la pittura, la poesia, la musica, e si vede nelle poesie: racconta a Giacosa, che era un amico musicista, che gli dispiace non poter musicare le sue poesie. Lui voleva fare tutto, espandere anche l’arte in una specie di totalità, in cui il verso non è semplicemente una poesia, deve essere tutto, deve essere danza, pittura, musica. Perché? Cosa stava aspettando? 

Scrive altrove una frase dedicata all’attesa di lei, in cui dice che la Duse sarebbe arrivata in quella casa, trasformata in un padiglione di mandorli mutilati. L’espressione mandorlo mutilato è allegra o triste? Bella o tremenda? Cos’è un ramo di mandorlo mutilato? D’Annunzio vive qui, in questo spazio in mezzo. E cosa si aspetta? Cosa cerca? Cosa vuole fare sperimentando, cosa cerca dicendo che stanno per arrivare le parole, che le colline stanno per parlare? Cosa sta aspettando, cosa sta cercando lodando la natura perché glielo sta, forse, per dire? 

Io sono convinto che questa volontà di dire che riconosce nel mondo fa capire che la poesia non ha una volontà di dire, bensì ha innanzitutto una volontà di ascolto: essere poeti, e D’Annunzio lo dimostra, non è una capacità espressiva, pur essendo lui un espressivissimo, ma l’arte della poesia è prima di tutto un’arte di ascolto, perché chi vuole parlare è il mondo, sono le colline, le persone che vedi, le facce che incontri. C’è il mondo che vuole parlare, e tu, poeta, devi ascoltare. Devi dare voce a quello, non devi inventare niente, devi avere l’umiltà di parlare e dare voce.

D’Annunzio questo lo sapeva. Cosa vorrebbe ascoltare? La sperata pace, dice nella poesia. La sperata pace, che ancora non si vede.

D’Annunzio aspetta quello che Francesco aveva. Francesco aveva la perfetta letizia. Io non so se vi hanno mai spiegato cosa è. Al di là della santità Francesco è un grande autore, che andrebbe studiato insieme a Dante e a Jacopone. Nei suoi scritti Francesco spiega cosa è la perfetta letizia. Cos’è? Perché è perfetta? Perché non ha bisogno di nient’altro. D’Annunzio è uno che maschera continuamente l’io perché ha bisogno del risarcimento e della consolazione delle cose preziose. Un po’ come noi: abbiamo bisogno di tante consolazioni e di cose preziose, perché altrimenti ci sentiamo morire. La perfetta letizia, invece, è una letizia che non ha bisogno di niente, non ha bisogno delle cose preziose o di travestimenti. È perfetta! Non ha bisogno di nient’altro. Quando Francesco spiega cos’è la perfetta letizia, dice, riassumendolo, che la perfetta letizia si sperimenta quando si esce dal convento e piove. Piove, e vai col tuoi amico frate all’altro convento, bussi, e non ti aprono. E poi, magari, uno esce e ti tratta male. 

Francesco dice: ecco lì puoi sperimentare la perfetta letizia. Perché la letizia di Francesco non dipendeva dal fatto che le cose andassero bene, o dal fatto che avesse dei ninnoli graziosi con cui rivestire la vita: dipendeva, come sappiamo, dal fatto che lui aveva un rapporto fondamentale, aveva un rapporto. Per cui, quando gli chiedevano: tu chi sei? Rispondeva: io sono Suo. Sono Suo. E sapeva di Chi lo diceva: lo diceva di Gesù. La perfetta letizia, dice Francesco ai suoi frati, è il fatto che quel rapporto ce l’hai sempre, il rapporto con Gesù ce l’hai sempre. Per questo puoi essere contento se gli altri non ti aprono, ti trattano male, se piove, perché quello che ti dà la perfetta letizia non è se hai la giacca colorata, se lei ti dice di sì o se il mondo va come vuoi, ma è fatta da un rapporto fondamentale con Gesù Cristo, diceva Francesco.

Questa cosa D’Annunzio l’ha, per così dire, invidiata per tutta la vita: cercava la letizia, la beatitudine, e non l’ha mai sperimentata, perché per lui tutta la vita è stata senza mutamento. Non c’è mai stato un incontro tale per cui potesse dire: io sono tuo. Non c’è mai stato l’incontro con una figura così grande, più grande di qualsiasi donna, successo, soldato, Mussolini, una figura così grande, incontrata, a cui lui potesse dire: sono tuo. 

Non aveva questo rapporto, non aveva la perfetta letizia, sapeva però benissimo che Francesco c’era, per questo nella sua poesia è così importante, proprio questa, in cui parla dell’attesa, del segreto del mondo, in questo testo così importante indica che il suo vero alter è Francesco. Lo farà anche tante altre volte nella sua opera e nella sua vita, perché capisce che un uomo che cerca la gioia, veramente, si deve confrontare con Francesco. Non c’è altro modo: ti devi confrontare con uno che ti parla della perfetta letizia. 

D’Annunzio lo sapeva, e lo sapevano tanti letterati. Pensate: quello è un momento in cui alcuni letterati diventarono francescani. Era talmente forte, insisto, il sentimento di una crisi dell’io, che questi davvero cercavano. 

L’ultima cosa che infatti vorrei sottolineare è che la lettura della poesia, come in questi giorni state facendo, necessita solo di una cosa: che tu stia cercando. Ma non a parole: non così per dire. Devi star cercando veramente la gioia. Solo chi cerca davvero la gioia sarà un lettore appassionato, se no può essere uno studente modello, ma non è interessante: il problema è essere un cane affamato di gioia, com’era D’Annunzio. Se sei un cane affamato di gioia cerchi, leggi, cerchi davvero i confronti e dove vedi questa gioia ti attacchi, come i cani quando raspano contro le porte. Se non sei affamato di gioia, invece, la letteratura diviene un passatempo per gente che ama i libri, e chissenefrega. La letteratura, se sei affamato di gioia, diventa la grande possibilità di confrontarsi con autori, come è nel caso di D’Annunzio, che hanno vissuto e affrontato questo problema seriamente, e confrontarsi in modo rispettoso della tua profonda umanità, non in maniera banale e spiccia, facendo zapping alla tv, ma leggendo e confrontandosi con la tradizione dei cercatori di gioia, con la loro opera.

Tutto questo è proporzionale alla fame di gioia che hai. Perché tanto più è grande essa, tanto più è grande la ricerca, la sperimentazione. 

D’Annunzio in questo senso è un esempio, perché se quelle colline, che sono come una bocca chiusa, non si aprono e non dicono il loro segreto, c’è da impazzire. Ci vuole un punto, un posto nel mondo, dove io possa sentire le parole che vorrebbero dire le colline. D’Annunzio, non a caso, in questa poesia dove parla della poesia, parla di parole che devono ancora venire. Non sono le sue di poeta: certi critici si sbagliano su questo. Devono ancora venire le parole delle colline, come se anche per lui non bastasse la sua poesia a dire quello che le colline devono dire. Non basta nemmeno la sua poesia. Sta aspettando, anche lui, in questo testo, qualche cosa. 

Se le colline non parlano c’è da amarle e da impazzire. Mentre ci vuole un punto nella realtà, nella realtà! non nei sogni o nelle mie idee, in cui io possa ascoltare cosa hanno da dire le colline, in cui possa ascoltare un invito alla gioia vivibile, un invito alla gioia vera anche per me, in modo che la mia vita non sia solamente una cosa senza mutamento.