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Forlì

Forlì

Come si fa a scrivere di un posto come questo? Come si fa a scrivere di qualunque posto? Le parole non ne vogliono sapere di scendere dal grande traghetto. Non si sparpagliano sul luogo, non vanno ai loro posti, non si mettono ad afferrare date, citazioni, cognomi illustri…Se ne stanno dietro la ribalta chiusa del loro gran traghetto o camion che a me pare di vedere, al misterioso mezzo adibito al trasporto da cuore a cuore e da pagina a pagina della mente e del mondo. Non scendono, stan lì. Attendono, occhieggiano, come bambine ferme sulla corriera. Il luogo che le parole dovrebbero “dire” è così più vasto e così più profondo, così più alto e così più basso di quel che riuscirebbero a far sentire…Verrebbe solo da ripetere i nomi: Forlì, Forlì, Forlì, Forlì, Forlì…quasi perdendosi nella ripetizione, nell’insistenza di quell’accento dolce, posto alla fine di un breve addolcito soffio che risuona in un accenno di rotolìo… come l’acqua di un torrente o un richiamo d’amore. Forlì, Forlì, Forlì… come a qualcuno da pregare che si fermi, che resti qui… Una sosta sulla gran via della storia. O Cesena, Cesena, Cesena, Cesena, Cesena… con la dolcezza femminile di una terra aperta verso il chiaro del mare, dove è caduta, tagliata (cecidit) una aspra selva per far luogo a una terra dolce, con all’inizio delle labbra un poco di polpa di frutta. Come il nome di un sogno che sta finendo, e senza paura.
Verrebbe da ripetere i nomi fino a scoprire che forse hanno una magìa dentro, e che, ecco, lei magìa, finalmente dice quel che c’è da dire sul luogo… Si, ho il sospetto che la ripetizione del nome ci porterebbe dentro allo sperdimento magico che caratterizza, quando li si osserva davvero, questi posti. Dunque, più che prefatori di una guida turistica che più seria di così non può essere, saremo strani sciamani? Ma come avvicinarsi altrimenti a questa zona che anche oggi nella trafila dei capannoni, delle strade e dei campi, tiene alto e presente un suo segreto? Come avvicinarsi a Forlì, a Cesena (sì, ripetere ancora…), se non affilando uno strumento di ascolto più che naturale? E come guardare le auto in coda sulla Via Emilia, o i manifestini funebri coi nomi di Veris, di Vidmer, Ada, di Firmato, di Secondo, di Amelia oltre ai nomi di tutti, o le facciate delle case su cui affacciano donne dal fianco largo e dal viso aperto e capace di ombre? Rimormorare i nomi. Quelli dei luoghi particolari, e quelli delle persone. Dei cari, certo, ma anche di quelli visti una volta sola. Ripeterli, rimasticarli. Manducarli, ruminarli, mentre rilasciano i loro segreti… Come la gran chiesa di san Mercuriale, pezzo forte di Forlì, che, leggerete, non si sa nemmeno per chi l’han fatta e chi diavolo era questo santo Mercuriale, forse un cacciatore di draghi. 
Molti segni, come ad esempio la poesia del Pascoli, che nacque proprio tra Forlì e Cesena, confermano quanto la passione e i diversi fuochi che accendono l’animo e il corpo dei romagnoli abbiano radice in una specie di “saseria”(da pronunciarsi con la “s” dolce), di disposizione allo smarrimento, al vaneggiare se non ad una speciale quasi allucinazione. O se anche volete lasciar perdere la poesia e Pascoli e tutto il resto, basta che entriate in un bar, magari a mezza mattina o a mezzo pomeriggio. E vedere chi c’è e come si sia in una zona “altra”.Tra qui e Milano ci dev’essere una faglia, Roma è su un altro pianeta, Torino la si vede forse con il telescopio. Dove siamo finiti? Anzi, dove siamo nati, dovrei dire?
Un mio amico, famoso regista bolognese, mi ha detto che la Romagna è una specie di terra promessa dell’Emilia. Come se da queste parti potesse finalmente finire l’esilio di una durezza, di una quadratura, di una astuzia commerciale che, mischiate ad altre sicure doti d’industriosità e di simaptia, affliggono i nativi da Castel san Pietro in su, verso Bologna, e oltre, tra Modena e Piacenza. O finire l’esilio di quelli che più a sud conoscono il troppo dell’asprezza fiorentina o della delicaterìa marchigiana. Questa è una terra sempre promessa.
Lo sviluppo del turismo, lungo l’ormai orendo e commovente serpentone di alberghi e di bagni che sotto i vessilli della Provincia FC ha il suo primo epicentro, è dovuto a questa strana proprietà di infinita promessa che ha questa zona. Certo, ha contato l’arte di rendere “affare” una serie infinita di fattori, dal mare alla ospitalità alla stessa famiglia, ma credo che lo sviluppo del turismo sia un segno per quanto stravolto di fine dell’esilio che qui gli emiliani e tutti i forestieri avvertono che potrebbe aver luogo. E ogni uomo in cuor proprio sogna la fine dell’esilio non come uno spento nulla, ma come qui appare il dolce movimento dell'’aria, dei colli, delle diverse macchie del verde. Lo stesso movimento che deve aver incantato Leonardo, che da Ravenna girava per queste terre immaginando per conto dei Signori di Malatesta un sistema di canali che doveva unire Cesena al mare. Realizzò infine solo il bel porto di Cesenatico, ma nella sua sant’Anna, capolavoro oggi al Louvre, il panorama di fondo somiglia a quel che alla luce dell’alba il genio deve aver veduto sui lidi di queste zone.

Forlì e Cesena sono una provincia da poco tempo. Mettono insieme più di 350.000 abitanti, sparsi in 30 comuni dai nomi strani e incantevoli, pieni di rocche e di castelli e di chiese. Le donne sono circa 10.000 più degli uomini, e il matriarcato antico delle campagne rivive in questo dominio speciale esercitato sugli occhi del viaggiatore. La visione delle donne domina. C’è chi dice che in questo tratto d’Italia ci siano le donne più belle del belpaese. Tra gli altri Lord Byron elesse a sua amante una ragazza di qui, prima di andare a morire in Grecia. Ma la gara con altri luoghi dello Stivalone è dura.
“Cesena da cantare, Forlì da ballare” dice un antico adagio. Differenza e complemento. Più ghibellina la prima, guelfa la seconda. Ultima propaggine di longobardìa Forlì, mentre Cesena è più segnata dagli influssi romani e veneziani. Forlì e Cesena sono state unite amministrativamente da un atto recente, quando nacque nel 1995 la provincia di Rimini. Prima Cesena e Rimini erano in provincia di Forlì. La parifica ha creato probabilmente dei vantaggi, ma ancora non ha sopito malumori. I forlivesi in fondo in fondo non la sopportano. Quelli di Rimini sono magari famosi in tutto il mondo per il mare. Quelli di Cesena, secondo loro (noi…), hanno dato due papi alla storia, il Braschi e …., hanno sì la squadra di calcio più importante, hanno un sacco di aziende e una folta popolazione. Ma la storia, dicono i forlivesi, era dalla nostra. L’impero antico, di cui Forum Livii era importante terminale, e anche il fiasco di Impero recente, quello fallito dal concittadino Benito Mussolini, portavano Forlì a una maggior ribalta. Ma Cesena visse il sogno d’esser fatta capitale dai Malatesta, nel ‘500, dopo esser stata rasa praticamente al suolo. Però adesso sta di fatto che sono insieme. Una unica targa automobilistica, e parecchi uffici messi in comune. Le differenze, in realtà, lungo questo tratto di via Emilia sono poche. Al di là delle chiacchiere e delle battute, tra il forlivese e il cesenate, corre una robusta simpatia. Lasciata la Rimini la cui romagnolità è più facilmente riducibile a macchietta in film o comichèrie, e che è da qui sentita già troppo marchigiana, la strada e l’autostrada legano paesi dal nome dolce e strano come Savignano sul Rubicone,  Case Missiroli, Forlimpopoli passando a lato di Bertinoro. Gente con la campagna negli occhi e con l’aria resa mobile perché il mare e la collina non sono lontani. Gente che sa che il mondo è vario. Che la notte sul mare è diversa da quella che ti segue come un magico mantello quando corri sulla E45 nella valle più bella di Italia, da Bagno di Romagna fino alle porte di Roma, Sarsina e altri posti incantati, o deviando verso passi aspri come quello detto del Carnaio. E diversa, più cupa e misteriosa è la notte nell’altra valle,quella del Bidente, che sale da Meldola su per Cusercoli, Galeata e arriva alle asperità sopra Santa Sofia, fino al passo estremo, prima di divallare in toscana, detto del Muraglione .
E’ una provincia che da una parte scende dolce verso la sabbia fine dei lidi di Cesenatico, che conosce le vie piene di biciclette dei posti di mare, chiari, pieni di barche colorate e ora affollati anche dalle nuove e antiche frenesie dei giovani a zonzo la notte con la bottiglia in mano. E dall’altra parte è una provincia che si inerpica in molte direzioni verso Firenze o verso Roma, nei luoghi aspri e dolci di Castrocaro con le sue acque termali, di Predappio, di Premilcuore o di Verghereto. E’ una provincia che stupisce in ogni borgo. E che ha cresciuto tanti personaggi paradossali, e perciò veramente umani, come il santo ghibellino patrono di Forlì, san Pellegrino, come il bandito cortese detto il Passatore, o come il “patron” del Cesena Calcio per lungo tempo, il simpatico e linguisticamente colorito Lugaresi. E dove sono nate imprese solide e famose nel mondo, come la Trevi e la Technogym, poiché qui il lavoro è stato un valore cresciuto dai socialisti, dai laici e dai cattolici. Ora, il crescere in questa provincia di una porzione significativa dell’antico ateneo bolognese, sta portando nuove linfe e nuove aperture. Ed è una provincia dove arte e letteratura hanno dato e continuano a dare buoni frutti, come i numerosi poeti e letterati, da Pascoli a Serra, da Spallicci a Piccari. Io credo che Forlì sia la città più “poetica” d’Italia: vi sono nati o vi hanno esordito un buon numero di scrittori e poeti, grazie a riviste come “La Pattuglia”, “Quinta generazione”, e ora “clanDestino”. Poeti di forti passioni. Lo fu il Pascoli, lo fu quell’Aldo Spallacci, massimo tra i dialettali, che sulla trincea austriaca della Grande Guerra si commuoveva sentendo venire le note di Strass, come risposta al canto della sua “Bela burdela fresca campagnola” intonata dal fante Arduino Giottoli, caduto di lì a poco. 
Una terra che ha dato anche dei santi, canonizzati o ancora no, come, nel nostro tempo, il pastore con il nome d’amico, don Pippo, e la delicata fortissima figura di Benedetta Bianchi Porro.
“Cs’el cor se int e cor un gnè una fiama ?
Cs’el mai campè s’un zerca la bataja ?”
E’ una terra dove storia e leggenda si mescolano continuamente. Come in tre episodi segnati tutti da un gesto deciso e di battaglia. Il primo gesto è quello dell'’astrologo forlivese Guido Monatti, che dopo aver scrutato il cielo, diede il segno a Guido da Montefeltro perché compisse, nel 1282, “dei franceschi il sanguinoso mucchio” (Dante). Il secondo gesto è quello con cui Mussolini tentò di metter fine a una secolare diatriba su quale fosse il rivo d’acqua da riconoscere come il celebre Rubicone varcato da Cesare. Savignano sul Rubicone, infatti, non è realmente sul Rubicone. Numerose prove ormai assegnano al fiume Pisciatello, e non al savignanese Fiumicino, la patente storica d’esser il fiume di confine oltrepassato da Cesare nel momento della decisione. E specialmente lo dimostrano le prove portate da un simpatico e battagliero erudito che da queste parti, a Monteleone, ha preso dimora e risponde al nome di Piero Buscaroli, musicologo di fama mondiale, vissuto tra musica e guerre. Ma Savignano, oltre alle numerose glorie culturali che la designarono come “Atene della Romagna” (tra cui un carteggio tra l’Abate Monduzzi e il grande storico Winckelmann) si tiene stretto il “suo” finto Rubicone. Il gesto deciso che glielo assegna è di Mussolini. Nel 1933, in visita alla cittadina e ospite di un suo potente e fido camerata, il Duce da un ponticello in mezzo alla città sentenziò: “Il Rubicone è questo”. Volle così smentire Napoleone che invece aveva seguito altra l’altra ipotesi e ingraziarsi i Savignanesi concittadini del conte Guidi. Tanto è l’orgoglio dei Savignanesi, che con gesto altrettanto risoluto, il sindaco del dopoguerra della cittadina beneficiata, rispondeva al suo collega e “compagno” di Santarcangelo che sollecitava una smentita del Duce anche su quel particolare: “Caro compagno! Mussolini l’era un birichein: l’a sbajè tot, ma in te fat de Rubicòn, l’a vest giost, e la avù ràson lò”.
Il terzo gesto, altrettanto deciso, fu quello grazie al quale i Tedeschi, in ritirata dal fronte della Seconda Guerra mondiale, decisero, dopo averlo già minato, di non far saltare il bel campanile di San Mercuriale a Forlì. C’è chi dice che fu grazie a don Pippo. Ma non s’è mai saputo. E ora, in un mio testo teatrale dedicato alla figura dell' appassionato prete, ho provato a immaginare quel gesto segreto. Così, ancora storia e leggenda continuano il loro corso, confondendosi ma soprattutto illuminandosi a vicenda. E i gesti del singolo, illustre o oscuro, hanno il valore della storia intera. Ne segnano il volto, aumentandone il mistero.


Il viaggiatore che abbia fame troverà ancora fatta secondo la sua origine di pane povero ( e non come spuntino turistico) la piadina fatta con spessore e le tagliatelle di taglio grosso. E chi ha sete troverà persone con una lingua che per designare il vino, qui nel cuore del cuore della romagna, dirà semplicemente “e bè”, il bere. Perché nient’altro è vero bere. Quello che ama le sagre e le feste, potrà aggirarsi nei vari borghi e fare una capatina alla rustida di pesce a Cesenatico. Quello che ama i teatri, vedere il Bonci a Cesena o il gioiellino del Petrella a Longiano, o conoscere le nuove importanti esperienze teatrali della Raffaello Sanzio, la Valdoca o di Elsinor a Forlì. Chi ama la pittura o i libri, farà un giro alla quadreria della pinacoteca di Forlì, dove la visione dei due quadroni di Guido Cagnacci, con i suoi santi in gloria con il volto sfumato si imprimerà per sempre. In questi due quadri dove regna l’azzurro (“gloria di san Mercuriale” e “gloria di san Valeriano”) si mostra tutta la dolce tempra del focoso e discusso pittore romagnolo, che per varcar legalmente i confini mascherava la sua donna da ragazzo assistente. Renato Serra, critico inquieto del nostro primo novecento, ha legato il suo nome alla biblioteca malatestiana a Cesena. Il viaggiatore affamato di architettura potrà trovare sperduti incanti di costruzioni romaniche, barocchi fastosi e anche la oggi rivalutata arte edificatrice degli anni ’30. O rimanere incantato, sulla strada di Sarsina, alla vista di un magnifico monumento sepolcrale di età augustea. O, ancora, potrà ammirare la Rocca di Caterina Sforza, dove nacque Giovanni dalle Bande Nere, e che vide la resistenza di Caterina contro il Duca Valentino nel 1500. Lei, adibendola a propria dimora, la ribattezzò “Paradiso”. Oggi, per uno dei misteriosi cortocircuiti della storia, la rocca che ebbe quel nome è sede del carcere. 
Chi ama la storia e ama le tradizioni troverà Accademie di vivaci eruditi, Trebbi di poeti e raccontatori, e anche il Tribunato di Romagna, con il proprio organo ufficiale.
Il viaggiatore senza interessi precisi troverà come perder tempo, svagando tra un bar e un chiosco, trovando balere di ogni genere, e gare sportive. 

Dicevo all’inizio di un fuoco “saso” che sta alla radice del temperamento di questa provincia. Si dice a ragione che i romagnoli di qui, centro della Romagna, siano tipi focosi, in molti campi. Il “murbio”, contrario di uomo forte di passioni, è il tiepido che Dio, come dice la Bibbia, vomiterà alla fine dei tempi. Ebbene, non credo sia un caso bensì una splendida trovata di Dio il fatto che la Madonna protettrice sia di Cesena che di Forlì  (ognuna con la propria cupola di gloria dipinta, la prima dal rococò meridionale di Corrado Giaquinto, la seconda dalla morbidezza del Carlo Cignani) sia in quest’ultima venerata come Madonna del Fuoco. Scampò quell’immagine ad un incendio. Ma è una protettrice adeguata nei fuochi di ogni genere. In quelli che avvampano l’amore e in quelli che avvampano il dolore. Nei fuochi dello sperdimento e della gioia, nel fuoco duro della solitudine e in quello bianco della gioia. Così che viene da dire, tornando al silenzio delle parole dell’inizio di queste poche strambe pagine: noi ci mettiamo il nostro fuoco, tu, Maria, ragazza, mettici il tuo sguardo, la tua protezione. Anche in questa piccola provincia, in questa grande terra.