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La poesia

La poesia

1.    La poesia è accedere a una grande memoria

La poesia è una forma della memoria ? Sì, se consideriamo che si scrive sempre in qualche modo ricordando. La memoria e la lingua sono due modi per raccogliere il reale. Sono le nostre mani a conca. Come con l’acqua, le nostre mani non lo raccolgono per poterlo trattenere. Nella memoria e nella lingua la realtà non resta interamente. Una poesia è, ogni volta che la si legge, una immersione delle mani a conca nel reale. Ogni volta una memoria. Ogni volta: altrimenti sarebbe una teca da museo, un monumento. Ma la memoria nella poesia è sempre un’azione “al” presente, che si rinnova ogni volta. 
Dante dedica le poesie della Vita Nova e l’intera Commedia a Beatrice: la sta ricordando, non è materialmente di fronte a lei. La ri-vede, la stra-vede. Ne ha, infine, visione. E così di ogni cosa, e per ogni cosa, si scrive ricordando. Il lavoro della poesia è una messa a fuoco nella memoria. Se la messa a fuoco arriva alla visione, allora si ha poesia. Se la memoria arriva a una visione presente allora ok, ci siamo. Sennò è un buon gingillo. Utile per decorare, o per intrattenere. Ma l’arte è un’altra questione. 
Il rapporto tra esperienza e scrittura è sempre un lavoro della memoria. Essa non è uno spazio. Non siamo computer. Credo che la vera natura della memoria sia d’essere una azione. Ad esempio, io ho poca memoria intesa come spazio. E, credo, molta memoria intesa come azione. Certo, le esperienze fatte si depositano da qualche parte in me. Ma lo spazio credo sia quello, infinito, dell’oblio. Da là le trae solo il lavoro della messa a fuoco. Della messa “in” fuoco. Questo lavoro lo chiamo , con un termine che nel poetese non si usa quasi mai: “giudizio”. Senza giudizio la memoria è come l’oblio. Coincidono. Il giudizio è l’azione con cui batto sull’incudine del cuore il ferro della vita. Il cuore è fatto di esigenze di bello, di vero, di infinito, e di giusto che sono l’incudine, la messa in prova, la “verifica”, di quel che vivo. 
Mi è capitato molte volte di leggere un’esperienza del mio passato attraverso una poesia e procedere in una messa a fuoco che finiva per mettere in luce dei particolari inaspettati per me stesso. Voglio dire: inizio a scrivere pensando che una certa situazione mi abbia colpito, o che certi particolari siano all’origine della poesia. Poi, lavorando con le parole e intorno ad esse, mi accorgo che era altro a parlarmi in quella faccenda. Una messa a fuoco, che può arrivare a rovesciare le impressioni iniziali. Le parole sono i colpi sull’incudine. Lavorare sul “senso” delle parole (che è l’insieme del loro significato e del loro suono) fa lavorare sul senso di quel che si vive. 
Del resto, Dante diceva che si usano le parole per dire quello che non si sa. Nella poesia, come nelle occasioni importanti della vita, le parole inseguono quel che devono dire. E’ un inseguimento strenuo, a volte. Perché, come è stato scritto da Henri Meshonnic, non sono le parole che hanno senso, ma il senso che ha parole. E, passando la manica, anche Hilaire Belloc ammetteva che le parole posson far di  tutto, tranne inventare il proprio significato. Perché il senso è più grande delle perole che continuamente lo recuperano, lo perdono e lo rammemorano.
Per questo, lavorare con le parole significa un viaggio in una duplice memoria: uno è quello del soggetto che scrive nel proprio ricordo, l’altro viaggio è nella memoria delle parole. Questo viaggio doppio, un super-viaggio, da come frutto lo strano composto di personalissimo e comune che vive in una poesia. 
Piero Bigongiari, grande indimenticabile poeta italiano e simpaticissimo “zio” per noi poeti più giovani, ripeteva spesso, riprendendo un’intuizione di Dino Campana, il poeta e folle di Marrani, che la poesia è come un ricordo che non ricorda. Il che significa che c’è un giacimento più ricco di ciò che appare. Tale giacimento che sembra preda dell’oblio, è il territorio in cui la parola poetica si avventura. Anzi, è propriamente, ciò di cui è fatta. C’è una vita anteriore che chiede di essere conosciuta. Un viaggio che porta in avanti ma procedendo verso la profondità, verso quell’uomo “leggendario”, delle origini, di cui parlava Ungaretti, che acutamente parlava di sé come dominato dal nomadismo e dalla nostalgia. Non è errare se si dice che la poesia è fatta di una nostalgia del vero del mondo. A cercare quella “fodera” del mondo, come la chiamava Cezlaw Milosz, la parte che non si vede. La nostalgia è il segno che esiste qualcosa di più grande, di più attrattivo di quanto si possiede nel ricordo. Non è il ricordo di qualcosa di preciso, è il motore acceso della memoria di tutto quel che non si ha. 
La memoria delle parole, la loro ricchezza insondabile fino in fondo, è lo strumento, il percorso che allo scrittore è dato per accedere alla ampiezza di quel che non ricorda soggettivamente. Per aderire all’ampiezza dell’oggetto della sua nostalgia. Per questo i poeti si fidano delle parole. Obbedendo a loro, sa di compiere un viaggio più profondo di quello previsto dal suo ricordo.
Mi è capitato ad esempio in una poesia che ho dedicato a New York. Tornando alla fine del 1999 da una serie di letture con altri poeti italiani, conservavo il ricordo di una serata a cena a casa di una traduttrice con altri scrittori e poeti. Una bella casa seminterrata a Manhattan. Mi sono messo a scrivere al ritorno. E pensavo che in quella serata mi avessero parlato (l’ispirazione è una voce che ti dice) alcuni particolari. Certo, la bellezza della nostra ospite, le sue figlie bambine, la conversazione con il traduttore di Pavese e con altri scrittori americani, e il fatto di essere a Manhattan per la seconda volta nella mia vita. 
Ci ho messo quattro anni a scrivere quella maledetta poesia. Mi sono rotto la testa e le mani per trovarla. Una lotta. E nella memoria lentamente, attraverso la lavorazione delle parole, mi sono apparse le cose che veramente mi avevano colpito in quella serata. Erano altre, molte altre. Erano là, le ho dovute rivedere. 
Non credo che questa sia un’eccezione. Molto lavoro sulle poesie avviene così. 
Una buona poesia non è mai solo un complesso fatto psicologico. E’ una visione. Flannery O’Connor, tra gli altri, lamentava il fatto che nella letteratura contemporanea vi sono grandi esibizioni psicologiche e poca visione. Vale a dire, molti giri nel perimetro della sensibilità e delle elaborazioni mentali della materia offerta dalla vita. Ma poche aperture, poco ascolto di quel che amore, movendo il sole e l’altre stelle, ditta dentro.


2.    La memoria è un azione presente


Negli ultimi versi della Commedia, Dante si dice sicuro di quel che ha visto.
Lo dice in pochi solitamente trascurati versi. 

La forma universal di questo nodo
Son cero ch’io vidi perché dicendo
Più largo ne godo.

E’ un passo straordinario. Alla fine del suo gran viaggio, dopo aver accumulato negli occhi e nel cuore lo spettacolo di ogni vizio e virtù umane, e dopo aver raggiunto il punto massimo della visione, dice al suo lettore: guarda che non ti ho raccontato favole. Ho visto Dio e per un istante il mistero dei misteri, l’incarnazione. E aggiunge: come faccio a esserne certo ? Poiché parlandone ora ne godo ancora e più largamente. 
C’è dunque un altro rapporto tra poesia e memoria. La dizione nel presente (e ogni lettura è una dizione) certifica la visione in quanto offre di poterne godere di più. Non c’è dunque solo un recupero, un mantenimento, un riportare in vita. L’opera aumenta l’esperienza dell’oggetto di cui si fa memoria. O, più in breve, la memoria potenzia l’esperienza. Vale per la visione di Dio, come per la visione del passero su un ramo. Se è visione. 
La memoria dunque agisce nella poesia, non è solo il suo oggetto. O meglio, l’esperienza del passato attraverso la memoria poetica si attiva nel presente. Si allarga. Esprime nel presente il proprio valore. Dante ne è certo in virtù di un godimento presente. Come chi scrive di un dolore passato, ritrova un più vasto dolore. E Dante compie un passo ardito nel situare nella propria esperienza personale e presente –così come in quella del lettore, da lui chiamato più volte in causa- la certificazione della verità di un’esperienza passata che la sua poesia narra. Non si dà altro luogo possibile di verifica, se non l’esperienza dello scrittore e quella del lettore, del vero a cui si accede con una poesia. Per questo non ha senso parlare di “pubblico” della poesia. Non esiste il “pubblico” come categoria desunta da altri campi per via sociologica. Esiste solo la condivisione tra due uomini di un viaggio nella memoria, di una sua messa a fuoco.
A questo livello della questione si collega l’annosa faccenda della poesia da imparare a memoria oppure no. Anche nel ragazzino a scuola, la memoria impegnata con la poesia non è una questione di ordine in un archivio. I francesi, che hanno alcune fortune nella loro lingua –ma sempre meno che noi- esprimono com’è noto l’imparare a memoria con l’espressione di trattenere “par coeur”, attraverso il cuore, un testo.  
Trattenere attraverso il cuore significa impegnare il cuore in un lavoro continuo su quelle parole. E’ una memoria intesa come ruminazione. Simile a quella di chi si ripete i Salmi non solo per conservarli, ma per impararne sempre il segreto. La memoria agisce veramente solo come tale ruminazione. Come archivio è destinata a fallire. O a svolgere una funzione parziale, inerziale.
L’importanza dell’imparare a memoria si ha solo se se ne considera l’azione. 
    Io non conosco a memoria nemmeno le mie poesie. Non ho quella memoria archivio che pure mi tornerebbe utile. E’ un archivio impazzito. Ogni volta che scrivo intorno a un poeta che pure ho letto e riletto, devo accedere ad altri archivi strumentali. Ma dai flutti di un mare molto movimentato, emergono come apparenti frammenti, le parole che sto ruminando, nel ricordo che non ricorda, nel livello della mia esperienza nel quale la lettura e la presenza di certe parole e del loro ritmo è divenuta pari al sangue, al respiro.