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Baudlaire e Flannery O'Connor

Baudlaire e Flannery O'Connor

Il mio intervento[1] –non accademico, non sistematico e spero non patetico- nasce da una doppia condizione. Quella di chi scrivendo versi non può non affrontare Baudelaire in una amorosa colluttazione (che nel mio caso ha portato a due lavori di traduzione) [2]e quella di chi pur non occupandosi abitualmente di narrativa si è trovato a curare un volume dei preziosi racconti della O’Connor in Italia[3]. La privilegiata condizione di “non specialista” mi ha condotto a notare tra i due autori –lontani per molti motivi culturali e caratteristiche personali – alcuni punti di contatto per quel che riguarda un elemento fondamentale della loro riflessione, maturata ovviamene in contesti diversi (la Francia della metà Ottocento e il sud degli States nella prima metà del Novecento), ovvero il rapporto tra letteratura e morale. Diciamolo subito: si tratta di scrittori entrambi “scandalosi” per la mentalità dominante che li circonda, e, se letti con libertà, anche per i lettori che si direbbero in accordo con certe idee o atti dei due artisti. Non sono scrittori afflitti da moralismo. Anzi. E l’idea che hanno della morale è della stessa natura dell’idea che hanno dell’arte. Rifacendosi a James, la O’Connor sinteticamente indicava la “quantità di vita sentita”, di “dramma” come valore morale di un’opera. E Baudelaire non nutriva dubbi sul fatto che solo fine morale di un’opera d’arte era d’essere una buona opera d’arte. Flannery O’Connor ha riflettuto spesso sulla natura dell’arte di narrare. Un caposaldo del suo pensiero, maturato anche sugli scritti di Guardini oltre che dall’ammirazione per James, è che la visione del narratore è “unitaria”. “Il tipo di visione che lo scrittore di narrativa deve avere è chiamata visione anagogica, cioè capace di vedere diversi livelli di realtà in un’immagine.” [4] Per lei la prospettiva del narratore è una visione ampliata della scena umana. “Lo scrittore di narrativa serio parla sempre del mondo intero. Per lui la bomba che cade su Hiroshima incide sulla vita lungo il fiume Oconee, e non può farci nulla”[5]. Sono temi che significativamente riprende anche in un suo scritto sull’insegnamento della letteratura. Charles Baudelaire sapeva che per “la prima condizione per fare un’arte sana è la fede nell’unità integrale”[6]. Ovvero la fede nella condizione di unità del mondo, conoscibile attraverso il metodo analogico, fissato da lui nella poetica delle “Corrispondences”. Dietro a Baudelaire, che come tutti i poeti fa il poeta e non fa filosofo anche quando filosofeggia, c’è la grande stagione della riflessione romantica che nel poeta dello Spleen trova conferme e smentite. E’ rilevante notare che nel pieno di un’epoca che andava elaborando e predicando la sua fiducia nella risoluzione sul piano scientifico, ideologico e sociale di ogni contraddizione umana (Parigi laboratorio post illuminista delle grandi ideologie otto.novecentesche che ancora dominano l’orizzonte, se pur sfrangiandosi), un poeta pianta un’opera, l’unica opera di versi a cui ha lavorato incessantemente, ribadendo che c’è una contraddizione insanabile nella vita umana. L’ossimoro del titolo (che originariamente era com’è noto ancor più forte se pur meno adatto: Les Lesbiennes) rimanda alla struttura continuamente ossimorica del volume e dello spirito che in esso si agita. In un epoca che pareva e predicava d’aver trovato le chiavi per raggiungere un bene naturale, un bene sociale, un bene tecnico, Baudelaire, il più moderno degli antimoderni (secondo l’analisi recente del Compagnon[7]) pianta il suo drappo che svela i luoghi comuni e, vestito di splendidi versi classicheggianti, rivela l’inguardabile. Scrive: “La maggior parte degli errori intorno al bello nasce dalla falsa concezione del XVIII secolo intorno alla morale. La natura in quel periodo era considerata quale base, origine e archetipo di tutto il bene e di tutto il bello possibili. E, nell’accecamento generale di quel secolo non ebbe poca parte la negazione del peccato originale”. In questo “errore” Baudelaire vedeva il tratto comune di due ideologie che pure apparivano contrapposte. “La scuola borghese e quella socialista. Moralizziamo! Moralizziamo! gridano entrambe con una febbre da missionari…Per loro l’arte non è più che una questione di propaganda.” [8] L’arte è utile perché è arte, prosegue Baudelaire in questo suo scritto dedicato al tema, dal titolo significativo e polemico: “I drammi e i romanzi onesti”, dove si augura di non aver per amico qualcuno che ha vinto un premio di virtù. E aggiunge, andando ben lontano da qualsiasi estetismo devoto a un astratto ideale dell’arte per l’arte: “C’è un’arte perniciosa ? Sì è quella che disturba le condizioni della vita.” In certe convinzioni il poeta sembra anticipare quelle della narratrice americana del ‘900. I romanzi che secondo Baudelaire (e secondo la O’Connor) disturbano “le condizioni della vita” sono quelli in cui i bambini parlano come adulti e libri stampati, quelli dove la virtù coincide con il successo. O dove la virtù è sempre premiata e il vizio punito. O quelli dove non si descrive la seduzione del vizio come neanche le “malattie e i dolori singolari” che ne conseguono. Se un lettore non ha un pensiero filosofico o una guida religiosa nel leggere un libro, chiosa Baudelaire dando credito ancora una volta all’opera libera del lettore, e perciò resta preda delle seduzioni del vizio, peggio per lui. Così come anche la O’Connor, reagendo spesso in modo ironico fino all’acidità a certi rilievi di quello che lei chiama a volte “il lettore cattolico medio” si rifiuta di fare da balia al lettore, e di ammannire finali consolatori, lasciandogli tutta la sua responsabilità e invitandolo ad avere “il cuore all’altezza giusta”. Secondo la O’Connor, “per la narrativa occorre una mente disposta ad approfondire il proprio senso del mistero attraverso il contatto con la realtà”[9] (n e s della narr.). Alle osservazioni che le fanno rilevando che nelle sue storie spesso i finali sono infelici o drammatici, lei risponde semplicemente di vedere che ci sono un sacco di vicende che non finiscono granché bene, e che la sua fede non le fa vedere le cose in un altro modo da come accadono, ma le fa vedere in esse una dimensione che all’uomo sena fede sfugge: la dimensione e la presenza del Mistero. La possbilità della Grazia. Solo in questo modo lei potrà cercare di adempiere al compito che Conrad vedeva per il narrare: rendere il più alto grado di giustizia all’universo visibile. “La narrativa, più che mai. è un’arte “incarnatoria”. Mentre il mondo moderno è manicheo, separa completamente spirito e materia.”[10]. Questa stessa separazione manichea è documentata e soprattutto “sofferta” da Baudelaire. Il quale accusava Voltaire di essere come “tutti i pelandroni” uno che non ama il Mistero. . “Lo ripeto, diceva, che un libro dev’essere giudicato nel suo insieme: a una bestemmia opporrò degli slanci verso il cielo, a una oscenità, dei fiori platonici. Dal cominciamento della poesia tutti i libri sono cosìffatti. Ma è impossibile fare in altro modo un libro destinato a rappresentare l’AGITAZIONE DELLO SPIRITO NEL MALE”. L’agitazione dello spirito nel “territorio del Diavolo” avrebbe potuto dire la O’Connor. Poesia e narrativa, o almeno una narrativa come quella della O’Connor, hanno in comune dunque il problema della “visione”, non del rapporto meccanico tra arte e morale. “Per lo scrittore di narrativa tutto trova verifica nell’occhio”. (La Chiesa e lo scrittore di narrativa). Altrove la O’Connor aggiunge che: “organo che alla fin fine implica l’intera personalità, e quanto più mondo riesce a contenere. Implica il giudizio. Il giudizio è una cosa che ha origine nell’atto di visione, e quando non parte da lì, o ne è scisso, allora nella mente esiste una confusione che si trasferisce nel racconto.” (Scrivere racconti) Citando Guardini, la O’Connor sa che l’occhio ha radici nel cuore. “Comunque sia, per il cattolico si diramano addirittura fino a quelle profondità del mistero rispetto alle quali il mondo moderno è diviso: una parte cercando di rimuoverlo, mentre l’altra cerca di riscoprirlo in discipline che, dalla persona, pretendono meno della religione.”. Anche solo da questi pochi appunti si evince che per la O’Connor il problema o la risorsa della fede religiosa nella sua esperienza artistica non si gioca a livello “identitario” o “morale”. A chi si stupiva che nel ‘900 lei potesse dirsi artista e cattolica, rispondeva rovesciando la faccenda: “proprio perché sono cattolica non posso che essere un artista”, individuando nella radice della visione il punto di unità tra fede e arte. Allo stesso modo, non solo per volontà di stupire la sua amata interlocutrice, in una lettera alla madre, Charles Baudelaire critica un prete che avrebbe bruciato una copia de “I Fiori del Male” contestando a quel babbeo che il libro “partiva da un’idea cattolica”. La negazione di Dio e del peccato originale, di cui Baudelaire accusava il pensiero autonominatosi moderno (e la narrativa alla Hugo)[11], è il motivo per cui la O’Connor sa di rivolgersi a una gran parte di lettori che non possono capirla. Come comprendere infatti in quei racconti la centralità dell’intervento “violento” della Grazia, che rende apparentemente grottesco il mondo da lei descritto ? Del resto, come è stato notato, la categoria di “grottesco” ha molti sensi nella storia dell’arte, e di certo vi si può riconoscere una sorta di difesa dell’individuale contro il massificante. E solo individuale e personale per Baudelaire (come per la O’Connor e per i cristiani) è il problema del destino e il possibile sviluppo autentico, da cui può dipendere quello sociale e non viceversa. La O’Connor lavora su un mondo reso ai nostro occhi grottesco da un dramma (tra peccato e Grazia) che non cogliamo più. E che Baudelaire invece conosceva benissimo. Se Eliot, grande lettore del francese, lo definisce “un Dante frammentato” oltre che uomo a cui fu dato soffrire per una condizione che era negata ai giornalisti e agli scrittori della sua epoca, significa che Baudelaire si muove su una geografia frammentata del poema dantesco. Ce ne sono segni in qualche componimento baudelairiano, come in una visione stralunata della morte di Beatrice della Vita Nova[12], ma soprattutto ce n’è il segno nella sua fede nella unità, inconoscibile censurando –per motivi ideologici o moralistici- il problema del peccato originale e del male. La O’Connor cita Baudelaire a riguardo della sua osservazione circa la maggior astuzia del diavolo, consistente nel non farci credere che esista. La lettura “anagogica” che Dante richiede e prevede per la sua Commedia è la medesima che la O’Connor chiede e prevede per i suoi racconti. Il “Dante frammentato” Baudelaire, lettore di Poe e di De Maistre, con la sua lettura per “corrispondeces” del mondo invita a un metodo simile, tanto sperduto e sfarzoso nei regni della sensibilità, quanto esatto nel cogliere il dato di mistero e di male “irrisolvibile” da ideologia o sforzo morale presente nella vita umana a qualunque stadio della sua evoluzione. E infine, sulla scorta di una annotazione della O’Connor sul fatto che i romanzi del futuro (lei scrive queste cose nel 1947) andranno “in direzione della poesia”, si può realizzare un altro punto di unità con Baudelaire. “Poetry is catholic” dice fulmineamente un poeta contemporaneo di grande valore, l’australiano Les Murray, mentre “the prose in agnostic”. Egli sta osservando il fatto che la parola poetica è sempre incarnazione, “because is presence”. Tale inserzione del mistero nel presente, che la poesia porta sempre con sé, era ciò che la O’Connor desiderava. La “violenza” della sua prosa, ospite della “violenza” con cui la Grazia entra nelle vicende, è forse un passo in direzione della poesia. Molti grandi scrittori americani e non solo l’hanno seguita, anche in quelle latitudini a lei lontane che vanno da Kerouac a Roth, o a quelle più scandalosamente prossime come Corman Mc Carthy. Mentre noi, più modestamente, ci siamo messi sulle orme di Baudelaire, sapendo che il viaggio è lungo, forse più pericoloso. Per noi inevitabile.

[1] Questo intervento riprende con alcune varianti quello da me proposto, sempre parlando a braccio, a Roma nel Maggio 2009 all’Università di Santa Croce, in un convegno su letteratura e cristianesimo.

[2] La mia prima versione de I Fiori del Male è del 1995, Guaraldi, Rimini. La seconda, attualmente in preparazione, uscirà alla fine del corrente anno per le edizioni Salerno, Roma. Alle Introduzioni e alle note che ho preparato ai due volumi si rimanda per eventuali approfondimenti su Baudelaire.

[3] F. O’ Connor, La schiena di Parker, a cura di Davide Rondoni e Maria Serena Falagiani. Rizzoli 1994. Alla Introduzione e ad altre note preparate per quel volume si rimanda per approfondimenti sulla scrittrice americana.

[4] “Natura e scopo della narrativa”, in La schiena di Parker, id.

[5] Ibidem

[6] C. Baudelaire, “I drammi e i romanzi onesti”, in Opere, Mondadori 2006

[7] A. Compagnon, “Les antimodernes”, Nrf Gallimard 2005

[8] C. Baudelaire, “I drammi e i romanzi…”

[9] F. O’Connor, “Natura e scopo della narrativa”, in “La schiena di Parker”, id.

[10] Ibidem

[11] Basti vedere alcune affermazioni come questa contenute ne “Il mio cuore messo a nudo”: “Teoria della vera civilizzazione. Non è essa nel gas, né dentro al vapore, né nei quadri girevoli, è nella diminuzione delle tracce del peccato originale…”. Citazione peraltro ripresa da Nietzsche nel proprio taccuino a Nizza nel 1888.

[12] La Béatrice, in Fiori del Male, id.