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Rebora

Rebora

Eccoci ancora davanti e sotto il suo martello e la celestiale poltiglia, o sperduto bisbiglio che fa di poesia respiro. Eccoci ancora a Rebora. Più profetico di Pasolini, più violento di Campana. La sua contusione delle parole e la sua profezia ancora ci cercano. La poesia italiana si cerca in fronte il segno di Rebora. Pochi mesi fa un giovane poeta napoletano, meno che trentenne, Valerio Grutt –uno che fa del pop- mi indicava in Rebora un suo primo maestro. Perché lui è uno di quelli che risale dai margini, dai pendii più precipitanti della nostra poesia fino ormai ad occuparne a diritto la vetta. E il suo musaico controtempo anticipa e richiama certe percussività contemporanee, tra rap e svenimenti della lingua. Quei verbi…E quel che Contini non seppe far altro che chiamare “arditissima” capacità metaforica. Ma la sua occupazione della vetta è inquieta e mai assodata, e mai soddisfatta di inutile gloria letteraria, poiché presenza e voce tutta bruciata e accesa di qualcosa di incomparabile ad ogni gloria o fama, di irridicubile a qualsiasi dicorso sullo stile. Rebora viene dopo Rimbaud. Dopo Hopkins. Dopo la loro abiura della poesia come salvezza. Viene dopo di loro e con loro addosso. Porta in scena la smentita assoluta e per ciò stesso la rimessa in gioco di ogni arte della parola poetica. Ha il suo naufragio –come Hopkins, come Moby Dick, come il ragazzo di Charleville. Perché forse è da naufragi che la poesia deve sempre ricominciare. Poesia a contatto con l’assoluto, e che riconosce di non esserne romantica e parziale ombra. Ma benzina. E oscura felicità. Una poesia come “mania dell’eterno”, in un percorso di vita tormentoso e teso.  La poesia di Rebora in quel suo primo tendersi e poi in quel quasi bambinesco ritirarsi vive della medesima precisione vitale, di dramma sentito fin nelle fibre del vivente reale, del farsi e disfarsi della vita. Del corpo e della voce. 
Il suo è “mettere a fuoco Dio”. Ha sempre inteso la poesia come la danza del Re Davide davanti all’Arca. Alla moglie Micol che rimproverava il re d’Israele di mostrarsi così nudo davanti al popolo e ai servi, il guerriero e salmista rispose: io stavo ballando davanti a Dio.
Rebora è uomo di visione. Non balla davanti ai servi della letteratura. Anche quando faceva o pensava di far solo letteratura. E’ un uomo che soffre e cerca quel che un poeta a lui in parte contemporaneo, divenuto però famoso per uno strano mestiere che si trovò a fare, aveva scritto nel ’52: l’uomo contemporaneo soffre soprattutto per mancanza di “visione”.
La visione manca all’uomo che non intende la vita come scena. Che non è orientato a vedere come se stesse accadendo qualcosa, e dunque a cercare la segreta relazione tra ogni particolare. Noi figli e figliastri della era che si è autoproclamata moderna ci sentiamo invece su nessuna scena. Puntini su un navigatore che segue vie e incoccia in eventi e situazioni. E avere una visione nemmeno ci interessa. E’ una sofferenza da cui grandi geni tra Sette e Ottocento ci avevano messo in guardia. Baudelaire, ad esempio, rimproverava la cosiddetta modernità di Voltaire (filosofo “da portinaie”) d’esser solo una travestita negazione del “peccato originale” e di “Dio”. E dunque, spariti gli attori principali del dramma interiore ed esteriore, la scena si è ridotta fino a svanire, quasi evaporare, lasciandoci tra rottami e risa frenetiche. Rebora ha senso dell’universo come scena. Affinerà, convertirsi sarà come affinare la visione. Ha senso della vita come realtà “positiva”, non per ottimismo, ma come qualcosa in cui vibra, segreto un “ineluttabile vero”. La sua formazione ardente e mazziniana, le letture da Tagore a Tolstoj, le passioni, l’impegno civile fan di lui un uomo che non devia dal grande segno iniziale di Francesco sulla nostra poesia: la considerazione della realtà. La sua “lode” per quanto perplessa e dura, gridata e ferita.
Vi è in questa primo segno di apertura al reale una “povertà”, come notò un grande lettore di Rebora, don Giussani. In alcuni testi dei Frammenti Lirici si da evidente questo movimento:

Frammenti lirici I citaz se a me fusto; VI conclusione

Fino all’acme di un coscienza di positività del reale, quando il poeta vede che la vita umana si avvera solo in una partecipazione amorosa al reale. E’ un ‘ombra di quel che avverrà trent’anni dopo. Fr lir XIII.
E l’uomo gli appare come un Gigante che va per l’infinito (XXVIII)
Reborà vedrà quel gigante urlare con le gambe mozzate nel fango durante la sua esperienza al fronte della I Guerra Mondiale. Lo sentirà gridare fino a morire, spegnendosi piano. (poesia di guerra). 
Il trauma di quei mesi sarà forte. Mesi di nevrastenia, che il medico di Reggio Emilia non a caso chiamerà “mania dell’eterno”.
Rebora è un compagno di avventura nell’assoluto di Campana. Dovessimo fare e andrà fatta finalmente una nostra antologia di Maledetti, come invitai a fare qualche anno fa per il Saggiatore Davide Brullo che allora la accennò, Rebora dovrebbe stare, sotto quella ferita precisazione che fece Verlaine introducendo Rimbaud, Corbière e gli altri: maledetti, cioè assoluti.
Forse nel Novecento italiano dovremmo accostarlo a Martini, lo scultore, per avere un eloquente corrispettivo. Quella sua castità combattiva. Quella medesima luminosità bruciante, in una “scultura lingua morta” che diviene prodigiosa e fisica rappresentazione dei movimenti essenziali del vivente: lo sguardo alle stelle, il nuotare, il perdono... Anche in una lingua apparentemente “morta” e pur vibrante Rebora ci ha dato un corrispettivo. Giovanni Testori –che amò Martini- guardava a Rebora e a Caproni come compagni possibili di una poesia che si liberasse da ogni ipoteca letteraria, da ogni convenzionalità stilistica. 
Il secondo passo presente in Rebora è il senso della collaborazione al vero del mondo, nell’ordito della storia. C’è un senso sacrificale, come in altri poeti avviene in quegli anni, pur se in direzioni diverse, come ad esempio in Boccioni e Marinetti. Si presente che l’amore con cui collaborare al vero reale porta a un sacrificio. Alcuni fraintenderanno questo e si butteranno in mischie politiche e belliche, Rebora no. E si butta nell’assoluto. E nell’amore come in un naufragio. 
(LVI; LXXI; LXXII)
Mettere a fuoco Dio, abbiamo detto iniziando queste vaghe stordite note, è un movimento. Un itinerario. La conversione folgorante di Rebora è il momento in cu i tutto il movimento precedente e quello successivo conoscono il loro segreto, per un istante. Prima era cercarlo, poi sarà cercarlo ancora, con più arresa violenza e passione. Nel ’55 quando stende la sua nota biografica per “Curriculum vitae” che esce da Scheiwiller, Rebora nota tra le scarne notizie che a un certo punto “viene alla fede”. In un suo intervento, tra l’ammirato e il perplesso, Michele Ranchetti annotava quella strana espressione “viene alla fede”. Penso che in quel verbo, in quella espressione che indica un movimento, una specie di resa attiva, sia una grande verità, irrintracciabile nella pur larga messe di indizi biografici messi in luce in questi decenni. La verità di un movimento, di un percorso il cui apice il poeta –già affermato e riverito come maestro da una parte di borghesia colta milanese e non solo- descrisse con le parole: Giugno 1928 “il Signore mi fermò definitivamente le parole in pubblico”. In quell’arresto, in quel taglio del suo “discorso pubblico”, che aveva dato i fiori altissimi di poesie profetiche e tese, Rebora vede un compimento. Qualcosa a cui doveva “venire”. Come l’amante teso nell’ardore quando conosce lo sperdimento a cui abbandonarsi, una forza che lo sovrasta e avvolge. Verbo –se ben inteso- che rimanda a metafore erotiche non a caso basiche nelle origini del poetare antico di Provenza, e poi siculo e toscano fino alla cattedrale dantesca; un poetare che fioriva accanto alla tensione dei Padri di conoscere amando. E di amare conoscendo Dio. In Rebora dopo quella interruzione di “discorso pubblico”, letterario e sapiente, irrorato delle saggezze di Tagore e dei Russi che andava traducendo oltre che della poesia e della letteratura dei suoi sodali fiorentini e del simile Michelstaedter, si avvia un altro discorso. Un altro movimento, in cui “decomporsi” sarà “offrirsi”: un doppio movimento, un controtempo come i suoi verbali portato dal livello dello stile della letteratura allo stile della vita. Una altra eloquenza. Che sembra “diminuire” la poesia e in realtà la incendia a un livello di ferialità impastata di eterno: quelle poesie d’occasione, quei sommessi versi finali, e le supreme povere, feriali assonanze. 

Da Canti dell’infermità: Le giravolte p 276, il pioppo p281, il passo 461.

Come se dopo il naufragio (quello amoroso con Lydia e ora quello del discorso pubblico) la poesia che rinasce fosse più simile al grido impetuoso e mendicante della protagonista del Naufragio di Hopkins, ne fosse l’ultrasuono in minimi frammenti: vieni Cristo nell’uragano. 
E viene il Cristo della devozione, non della invenzione. Rebora accoglie quello che c’è. Non gli interessa discutere di faccende ecclesiali, di teologia. Vuole le preghiere più banali, introduce materiale linguistico apparentemente misero e invece fortissimo, traendolo da litanie e bisbigli popolari. Si avventa, sorridente e umilissimo, su tutto quel che della tradizione non sa, per dire “sì a qualcosa che so”. L’assoluto già conosciuto viene riconosciuto nella familiarità di una vita ritirata, di preghiere semplici e di silenzi in cammino verso le mete della preghiera e della carità.  Il poeta diviene, come scrive padre Clemente, “unitotale” che è come dire cattolico, in senso etimologico, ombra povera e per così dire accogliente, passiva dell’Onnipotente a cui invece voleva somigliare il romantico)
La scena del mondo, sapeva Paolo, necessita di una lingua che non è nemmeno quella degli angeli. Figuriamoci quella dei poeti che appartengono alla letteratura. Occorre la lingua della carità. Rebora venne a quella lingua. Obbligando ora tutti noi, che scriviamo o amiamo i versi, a misuraci con ciò che non ha misura. E che ci abbatte, salvandoci da ogni superbia. La lingua della carità può abitare la poesia. Di più: può generarla. In Rebora si compie qualcosa che Rimbaud, mistico selvaggio, agognò febbrile nella sua Saison. Nel mezzo ci fu il silenzio –che può essere un precipizio vasto o una ferita dentro le parole ma è comunque dedizione, e vita che cerca solo la vita, cioè la sua Fonte.