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Poesia e panorama

Poesia e panorama

Nel finire dell’800, sulla scia di tante propulsioni filosofiche e visionarie, tra Rimbaud e Shopenauer, senza dimenticare i passaggi di Leopardi e Schelling, l’opera d’arte è considerata come “la natura che si prolunga nell’uomo come riflessione di se stessa”. Lo ricorda Giorgio Zanetti nel suo lucido, magmatico e dottissimo “Il novecento come visione”. Abbiamo dunque una sorta di partecipazione al paesaggio in cui il panorama interiore ed esteriore si scambiano per così dire il volto e la maschera. Le stellate sospese, le valli, le montagne, il mare, ma anche il panorama di cui la città metropolitana comincia a occupare gli orizzonti, sono vissuti nell’opera d’arte come specchio mirabile, occasione prodigiosa e alterità continua rispetto a cui si esprime il movimento interiore dell’autore. Che sia un particolare elemento del panorama, come il “passero solitario” di Leopardi, o poco più avanti, la visione dei boulevard di Parigi su cui Baudelaire vede “stordito come un pazzo” nello sguardo di una passante “germinare l’uragano”, il panorama che l’Ottocento consegna al Novecento, con un gesto che si prolunga ben al di là delle divisioni dei calendari e delle scuole, e che continua a effondere la sua giustizia e la sua visione, è un panorama sempre eco di armonie o stravolgimenti interiori. Un panorama spirituale, se così si potesse dire, dando all’aggettivo una movimentazione lontana da ogni melliflua fissità e da ogni riduzione pietista.
Nella pagina iniziale dei Promessi sposi, la maestria da urlo di Manzoni ci mostra in un volar di sguardi per valli, montagne, e fiumi che diventan laghi per poi ritornare fiumi, e campagne e borghi, insomma in un zoomare cinematografico prodigioso e pieno di ritmo e di poesia, l’andamento della natura e della storia, ovvero lo scenario dove sta per entrare, col passo “svogliato” di don Abbondio che non sa d’incontrare i bravi, il supremo dramma della libertà umana –vero argomento del meraviglioso romanzo che lasciamo impolverare nelle aule scolastiche e tra le mani gialle di professoresse e di filologi. La natura e il panorama, dunque, arrivano al Novecento per così dire già di tutto carichi del nostro patema e della nostra povera gloria umana. Già hanno raffigurato, evocato, simboleggiato ogni pena e ogni esaltazione. Arrivano nell’arte novecentesca già tutti grondanti d’umano. E ogni panorama –secondo la parola mantra piantata da Baudelaire- sarà una “corrispondenza” con l’anima e i suoi movimenti, dolcissimi o tremendi. Il Novecento –se mai ha un senso, e ne avrà sempre meno, questa denominazione ripartita- eredità questa enorme spettro, questo panorama-anima, questa fusione o anche separatezza ma pur sempre corrispondente. E pare andare verso la sottolineatura della estraneità tra l’uomo e il panorama che lo circonda. Una estraneità dell’uomo a se stesso –come urlava Papini in alcune pagine datate proprio ‘900- che lo fan sentire lontano, estraneo, quasi offeso nell’esser gettato in un panorama in cui non si riconosce. Naturalmente gli uomini della pittura svolgono parallelamente percorsi simili alla poesia e alla letteratura. Ma basterà pensare ad alcuni apici di questa avvertita o problematica estraneità per avvedersi di quella direzione presa, pur stando solo nella nostra lingua: il deserto dei Tartari di Buzzati; il mare fissato dall’uomo pieno di noia di Pavese; la liguria di Sbarbaro che passa in quella meno scabra ma più stupita e scettica di Montale. Naturalmente parliamo di movimenti sconnessi, non lineari, e attraversati da movimenti contrari, addirittura entro le medesime opere di un autore. Pensiamo al panorama delle prime struggenti e accese poesie di Ungaretti. Nella poesia “I fiumi” che s’accompagna a quelle dove schegge di un panorama di natura scabra e di battaglia, egli parla però della scoperta d’esser “fibra dell’universo”, nel contatto con l’acqua del soldato acrobata di un circo in disarmo e poi accoccolato come in una “urna”. O è lo stesso Montale che al mare misterioso e divorante chiede gli “ossi di seppia” come tracce di una vita reale, di un’anima inquieta non tutta consumata dal volgere degli elementi. E per stare ancora tra i nostri grandiosi e sbandati poeti, non è Campana gran camminatore dei boschi di Campigna, tutto immerso e pur tutto “deviante” dal suo panorama ? Ungaretti usò il termine “nomade” per dire di sé, potendo lui fissare però all’orizzonte non il vagare a vanvera di tanto spirito novecentesco (ma ripeto, nostro ancora, e antecedente) ma una vagheggiata e reale “terra promessa”, come negazione di ogni chiusura nel panorama attuale. Certo, il nomadismo può diventare turismo, quando il panorama diviene per l’uomo una sorta di territorio in cui curiosare –anche tra le rovine o le superbie della storia- ma non riconoscere più nulla di sé e nessuna indicazione di destino. Ne avverte il rischio il migliore Zanzotto, che procede nella sua “critica” del paesaggio umano e non umano con nevrosi celeste. Ma l’arte, anche la più estrema di perplessità e di sperdutezza, non può mai divenire turistica. E così proprio sul finire del Novecento, la poesia accesa e nutrita di linfe antichissime e future di un Luzi o di un Kavanagh, di un Walcot o di un Heaney, o per stare più prossimi, di un Mussapi, De Angelis, Cucchi, Pontiggia, Piersanti, D’Elia e pure tra i più giovani Lauretano, Riccardi, Donati, volge al panorama uno sguardo capace di accensioni stupite, di auscultazioni profonde, di dialogo segreto e rivelatore dell’anima all’anima. Del resto, era un panorama quel che aveva negli occhi e nel cuore che stava spegnandosi uno dei primi e più forti dei nostri poeti che alle labbra segnate di dedizione e di amore bruciante lasciò salire una lode. Lui si chiamava Francesco. 


 

Due poesie:

Cesare Pavese

Lo steddazzu

L’uomo solo si leva che il mare è ancora buio
e le stelle vacillano. Un tepore di fiato
sale su dalla riva, dov’è il letto del mare
e addolcisce il respiro. Quest’è l’ora  in cui tutto
può accadere. Perfino la pipa tra i denti
pende spenta. Notturno è il sommesso sciacquio.
L’uomo solo ha già acceso un gran fuoco di rami
e lo guarda arrossare il terreno. Anche il mare
tra non molto sarà come il fuoco, avvampante.

Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno
in cui nulla accadrà. Non c’è cosa più amara
che l’inutilità. Pende stanca nel cielo
una stella verdognola, sorpresa dall’alba.
Vede il mare ancor buio e la macchia di fuoco
a cui l’uomo,. Per fare qualcosa, si scalda,
vede, e cade dal sonno tra le fosche montagne
dov’è un letto di neve. La lentezza
dell’ora è spietata, per chi non aspetta più nulla.

Val la pena che il sole si levi dal mare
e la lunga giornata cominci? Domani
tornerà alba tiepida con la diafana luce
e sarà come ieri e ami nulla accadrà.
L’uomo solo vorrebbe soltanto dormire.
Quando l’ultima stella si spegne nel cielo,
l’uomo adagio prepara la pipa e l’accende.



Mario Luzi

La Grazia creduta irraggiungibile

Si ordina
        si forma
                tra buio e luce
                            dal suo interno, essa
e fuoriesce, miscuglio
di lava e di cristallo,
                    sotto i fulmini
e le iridi della sua tempesta
ed eccola si stende, opacità
prima luminescente,
                    poi compagine
sempre più luminosa,
                    infine
luce-sostanza
            sulla volta abbagliata
del pensiero e della stanza.
                O immagine
del mondo
        ancora accesa
                dalla propria incandescenza
tempestata dai nembi
e dal suo evento –
            la proietta il cuore
non sa per che potenza,
esulta, si sgomenta
sorpreso di quel fiotto
di forza e luce –
            da dove?
non sa dirlo, lo prende
in sé, lo sbilancia, 
lo scaglia in forma e canto.

Materia, quella, 
creata che prolifera
            ed espande
- per opera di chi? sua?
sua, sì, per mano
di lui gramo – la gloria
umana e celeste del racconto –
                    o caos 
                    vivente
in lui, nella sua mente –
si voltola nel tempo, essa,
                rotea
tra creato e increato
generando –
        cosa, Padre,
generando? quegli abissi 
di buio e di splendore
che deposita grumoso
o liquido l’indugio
o il passaggio del pennello,
non altrove, lì,
sul muro, su quello schermo.
Ma, dietro, l’incessante
                e in esso
il gaudioso, in esso lo spavento.
O arte che mi illumini il mondo
e me lo rubi
        e mi tantalizzi,
abbi misericordia di me, mi raccomando.