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Il canone come una passerella

Il canone come una passerella

Davide Rondoni


Il cosiddetto canone, o come qualcuno vuole chiamarlo in modo più mobile, un poco più plastico e visionario, meno accademico, costellazione, è uno strumento. Se non lo si intende come tale,  strumento di orientamento e di verifica che la tradizione offre alla affamata e libera febbre delle nostre preferenze, diviene una sorta di norma. O peggio di gabbia. Di galleria dei busti onorevoli. Tutte cose che in arte sono inutili, quando non dannose. Sicuramente ridicole. La poesia vive di gratuità e di presente. Ogni forma e configurazione della tradizione, del traditum, ottiene il proprio valore, e la propria splendente commossa giustizia, nel momento in cui diviene buona legna per il fuoco presente, quando nutre, non quando rivendica onori e orpelli. Senza il canone sarebbe più difficile uscire a far legna. O per giungere all’unica decente definizione che mi viene, stimolato a pensare su queste cose, sarebbe più difficile arrivare al mare. 
Il canone è una passerella. 
Intendo quelle strisce di cemento o a volte in legno che ci conducono in spiaggia e che servono per arrivare più prossimi al mare. Sono stese per levarci il fastidio del caldo, per permetterci di camminare guardando il panorama. O anche le tante figure e forme che a volte affollano quei tratti.
Dalla passerella, senza scottarsi i piedi, è più facile notare le spalle bellissime di lei che si gira nel sole, o la corsa di leprotto di un bambino che cerca chissà cosa, o i riflessi dell’acqua sugli occhiali di lui, che vede le nuvole passare.
E così l’immenso, straordinario panorama di opere che gli uomini hanno disseminato, con parole e ritmi, per poter dire quel che urgeva nel cuore loro e che parlava dalle mille e mille figure del reale, può essere meglio ammirato sulla passerella ordinata di un canone. Non si sta sulla passerella per ammirare la passerella medesima. E’ quel che capita del resto a certi autori, che fatti coincidere con la passerella –o chiamatela classicità- subiscono l’usura, la consuetudine di esser lì così sempre sotto i nostri occhi e passi che quasi ce ne dimentichiamo, o dimentichiamo l’enorme debito di gratutidine che abbiamo verso di loro. Poi per fortuna, ce ne accorgiamo,  guardiamo commossi in direzioni dei nostri piedi, vedendo le radici che ci sono sotto,che ci tengono attaccati alla vita, e che ci hanno fatti arrivare fin qui. E se non ci accade di farlo da soli, mossi da una semplice e vasta gratitudine verso il nome di Dante, di Petrarca, di Tasso (accidenti, quanti italiani!) di Shakespeare etc etc, ecco che arriva uno, che se ne va su un’altra passerella e ci manda un grido: “ehi, come va? come sei messo? e che razza di passerella è la tua, la trovo interessante, molto interessante!”. E allora ci ridestiamo, e per così dire, rivediamo dove siamo con occhi nuovi, spostati, felicemente spostati. Quando dalla sua isoletta caraibica arriva Derek Walcot e “imita” Omero ci tocca svegliarci. Come quando arrivò, molti decenni fa, un impassibile americano di nome T.S.Eliot e si mise, sulle orme di un satanasso di nome Ez, a farci vedere che quel Dante Alighieri cavolo! com’era importante per la poesia del Novecento.
    Naturalmente ogni passerella si presta ad essere una male interpretata passerella. E invece di essere una striscia per camminare sicuri in mezzo alla spiaggia e verso il mare c’è chi la intende sempre come una sfilata. Sì, una sfilata di star, o di capi d’alta moda. Accade in spiaggia, e anche in letteratura –che è come una spiaggia, non credo l’ultima- che ci sia qualcuno che fa la passerella come se fosse all’entrata del festival di Cannes, o alle sfilate di Parigi. Come se fosse il suo passo, il suo ritmo e le sue parole a creare, magicamente, la passerella su cui cammina. Sente intorno scattare gli invisibili flashes dei fotoreporter e ha la faccia di chi: “adesso arrivo io”. Ne vediamo di questi tizi, anche se spesso dissimulati in fattezze un po’ blasè da modesti scrittori che scrivono-come-viene…Beh, il canone-passerella sopporta paziente anche quei tizi. Passano, passano anche loro. 
    Alla costruzione e distesa della passerella contribuiscono molti fattori. Innanzitutto la fatica dei bagnini (come metafora per i critici non c’è male) che sono molto spesso baristi e bagnini di salvataggio, e che insomma si occupano della vita della spiaggia. A loro, alla loro lena e alla loro cura si deve innanzitutto l’esistenza della passerella. Se hanno fiuto e buone mani faranno un’eccellente passerella. Se i bagnini smettessero di fare il loro mestiere sarebbe più difficile per tutti arrivare al mare. E’ pur vero che ci sono bagnini che si sono costruiti il loro piccolo impero vicino al mare. E per così dire, ti intrattengono nei loro ex-chioschi divenuti ristoranti, bar fornitissimi ect con un sacco di optional, e di comforts. Sono stati previdenti e furbi. Quasi quasi ti fanno dimenticare del mare. Come se tu non fossi arrivato fin lì per lui. Come se in fondo per passare una buona villeggiatura nel mondo si potrebbe fare anche a meno di lui. E’ pieno di giochi, video giochi e altri ammennicoli, che catturano i più piccoli.
Poi certo, oltre ai bagnini, per fare la passerella concorrono un sacco di altre cose. Il tempo, la metereologia. Se il posto dove l’hanno stesa è battuto da piogge e monsoni, quella passerella sarà inutile. Magari bellissima ma inutile. Oggi, ad esempio, penso che la maggior parte di insegnanti nel nostro bello e ferito Paese non sappia più comunicare il valore antropologico dell’esperienza poetica, ovvero a quale livello dell’esperienza umana comune si “attacca” per così dire la necessità della poesia. La spacciano come forma di comunicazione, come genere letterario, o peggio, come sola storia della letteratura. La poesia è anche tutte queste cose, ma non è innanzitutto questo. Se non si rinnova nei ragazzi la scoperta di avere una lingua in grado di accendersi, di tendersi, di ritmarsi in modo diverso dalle mode o dalla sciatteria quando la realtà ci colpisce (un amore, un dolore, la luna, un colore del vento) per i nostri figli la poesia sarà sempre più uno strano difficile ornamento, un passatempo culturale stranamente faticoso, e una comunicazione meno rapida ed efficace di altre. E non c’è canone o passerella che serva a “riabilitare” l’esperienza della poesia quando ne viene annullato il valore, il morso, il legame antropologico.
Se invece si mette la passerella in un luogo troppo trafficato, in mezzo all’assalto di una torma di turisti allora sarà anche in tal caso spesso inutile, e si faranno altri tragitti. Se la costruiscono con troppe asperità, usando ghiaia mal composta nel cemento, o cemento troppo ruvido per i piedi dei bambini e più delicati, anche allora sarà un canone che fa fino ad un certo punto il proprio mestiere. 
    Personalmente preferisco le passerelle di notte. A spiaggia deserta, quando le stelle punteggiano la volta e gli ombrelloni sono chiusi come poesie finite. Si sentono i propri passi sulla striscia che è uno dei punti più chiari del panorama. In quelle notti la passerella si vede bene a cosa serve. 
Per arrivare più vicino a lui, al mare, a sentirne l’inesausto, il grande respiro.