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Le sorelle dei poeti

Le sorelle dei poeti

“Possiamo avere la stessa anima, poiché siamo dello stesso sangue”. (A. Rimbaud)

Ad un certo punto entrano in scena loro. Le sorelle. E si sospetta subito che se pur di quelle scene, di quelle vite di poeti, le regine, le vamp o vistose soubrettes siano state altre femmine, in realtà erano loro, le sorelle, ad averne dietro le quinte le più segrete chiavi.
Le donne dei poeti sono molte e di molti tipi. E su di esse, su ciascuna di esse, palesi o ignote alle cronache e ai testamenti, si sono appuntati gli occhi spesso velati dei biografi, dei critici e a volte anche lo sguardo azzurrino e chirurgico dei filologi. Quelle donne sulla scena della poesia hanno l’onore del nome onorato dai versi, ma devono anche accettare di tutto, ogni genere di ispezione, e non di rado l’affronto. Ma il loro destino si compie in quella scena, dominandola.
Il poeta e la sua donna, la sua “domina”, sono la parte evidente, la parte esibita della poesia. Sono la parte dichiarata. Una ispiratrice ha da esserci. Per quanto soggetta a molti travestimenti e costretta a subire diverse operazioni e, lungo i secoli, a mutar costumi e linguaggi, la donna del poeta, il suo feminino insistere ai suoi occhi e al petto è un perpetuo ingresso o ingrediente nell’impasto o fuoco primo della poesia.
Dove c’è un poeta –per quanto scalcagnato – si troverà una Laura o una Lesbia, o almeno una trasfiguratissima Dulcinea del Toboso. 
Unicamente eccede la casistica, sola rompe lo schema, pur facendone parte apparente, il “miracolo” Beatrice, che dapprima pare procedere entro quella inevitabile accoppiata, e poi sorprende il poeta e il lettore conducendoli –attraverso la sua stessa morte- a un viaggio in ogni umano stato e abisso e infine nell’Amor che move il sole e l’altre stelle e, infine, nel mistero della Incarnazione, Ponendosi dunque lei, Beatrice, non come la solita innamorante. No, lei come “venuta da cielo in terra a miracol mostrare”, adempie una funzione rivelatrice riconosciuta dal poeta “pari” a quella di un profeta, o analoga, come hanno mostrato i più autorevoli dantisti sulle orme di Singleton, alla stessa Incarnazione. Altro che oscuro trattamento, indegno dell’amore e della donna. Dal fiore alto e rappresentativo della mens medievale arriva la visione della donna più dignitosa e onorevole, la meno riducibile a comoda idolatria o a sentimentale spasso. In Beatrice si esauriscono e rilanciano le estreme possibilità dell’amata. Per riveder lei, ha scritto Jorge Luis Borges, Dante ha scritto la Commedia. Non è più solo donna ispiratrice, è divenuta “meta”, presenza che rende possibile, conoscibile, Dio. Donna che, per così dire, toglie Dio dal rischio d’esser vano, mistero solo invisibile, lontano. 
Eccetto dunque Beatrice, che evade da ogni spettacolo, a tener la scena parrebbero decine di donne dai nomi divenuti celebri in quanto amate e più o meno apertamente cantate dai poeti. A loro il proscenio, gli acuti, gli a soli.
Che siano le rilkiane Lou Salomé o Clara, le montaliane Mosca o Volpe, le baudelariane passanti o le rose di Jiménez, oppure le diciassette amate dal Leopardi (così le contò il Dusi nel 1931) le donne dei poeti hanno invaso le pagine delle loro opere e le pagine di chi le ha commentate e sezionate, magari stendendo quelle ombre sui lettini da psicanalista. 
Ma quando entrano in scena le altre, le sorelle, c’è da ammutolire. Perché entra in scena qualcosa di ininterpretabile. Un segreto che resiste ad ogni analisi o anatomia. “Mia  sorella è di là, ascolta musica” iniziava una delle mie prime e incerte poesie. Ma c’era già tutto. La sorella dei poeti è prossima, ma a differenza della donna amata che “deve” ascoltare i nostri versi innamorati, è libera di aver attenzione per altro, e di portare questa sua ferialità “altra” a rompere e a giustificare con tale altra verità il mondo della poesia.
A questo punto la parte ispiratrice, coautrice si direbbe, femminina di ogni avventura di poeta si colora di qualcosa di silenzioso, di segreto e di estremo. A dispetto della ferialità della loro presenza, quasi al contrario della loro più “scontata” esistenza, è nel rapporto con loro che, in molti casi, l’artista e l’uomo consegnano il segreto estremo del loro travaglio e del loro destino. 
A una sorella, di nome Cornelia, Torquato Tasso, esule dalle corti e dai castelli della sua immaginazione, si presentò vestito da pastore a Sorrento per verificare s’ella lo amasse davvero, dato che altrove sentiva solo il freddo che lo deprime. Di quell’amore voleva esser certo, più che del favore dei principi o del consenso dei dotti. Non avrebbe potuto più scrivere, altrimenti. Al matrimonio della sorella minore Ida, Giovanni Pascoli parve subire una specie di tradimento: “Vivere senza te! come si fa?”.  Nei versi per quel matrimonio, pare un saluto funereo più che una gioia. Sul “nido” pascoliano si sono scritte molte cose, anche a sproposito. Resta il mistero di una custodia a cui il poeta si consegnava esclusivamente. 
Di certo, in molti casi, l’assenza di un genitore –la perdita tragica del padre per Pascoli o, come nel caso di Leopardi o di Rimbaud, una mancanza affettiva da parte della madre- può dare uno speciale, infelice incremento alla felicità di un rapporto tessuto di complicità e preferenza tra fratello e sorella. Ciò, naturalmente, non vale solo per le case visitate dalla poesia.
Era a Cesena, in visita a casa di una sorella, il poeta dalle tinte a lapis, Marino Moretti quando intonò il verso apparentemente atono che domina la novecentesca poesia italiana. Quella pioggia che dilava i colori, quel mercoledì in una città di provincia, sembrano diventare il centro spoglio, il luogo poetico di bassa energia affettiva per il mondo, come avviene per le scabre poesie di Sbarbaro, o in quelle più sostenute e variate nel loro grigio fondo del celebratissimo Eugenio Montale. Dopo la modernità delle metropoli che aveva sedotto e inquietato la poesia da Baudelaire a Marinetti, la poesia cerca la propria nuova voce in altri centri, siano quelli del ritrovo feriale, siano quelli dove le consuete presenze familiari sono catturate in modo straordinario nella luce che può divenire tremenda della storia.  E’ dal nascondiglio in casa della sorella Maria che Cesare Pavese osservò la guerra e affinò il suo verso lungo, modellato sui versi popolari del Monferrato. Per poter raccontare ancora di nuovi miti, e degli uomini, della magia di “quei loro incontri”. Anche Mario Luzi, nella cui  opera la figura della donna agisce come “pivot” nella partita della conoscenza, alla sorella dedica due testi. “Tre corpi e un’anima sola” scriveva uno dei padri del romanticismo inglese, Samuel Coleridge, a proposito del legame con l’altro grande poeta William Wordsworth e la sorella di lui, Dorothy. 
Fu Isabelle ad assistere la lunga terribile agonia di Arthur Rimbaud, muto di poesia, sciancato dopo aver vagato a piedi per ogni dove e aver segnato con pochi foglietti dal suo taccuino di dannato e con quel silenzio il destino della poesia moderna. Le lettere e i diari di Isabelle dalla camera dove si stava spegnendo il fratello “abbandonato dall’universo intero” sono di una sofferente dolcezza immensa. E, per una strana catena sotterranea, Isabelle avrebbe voluto come esecutore testamentario e curatore dell’opera di Arthur quel Paul Claudel, il forte e visionario poeta, la cui vita sarà segnata dalla presenza della sorella artista Camille. 
Del legame quotidiano, profondo e disperato che tenne Giacomo vincolato a Paolina Leopardi si è già scritto molto. Per il suo “Muccio” la  più giovane sorella stravedeva fin da bambina. Si scambiavano lettere tenere e giocosamente erudite fin dall’infanzia, che entrambi ebbero fredda, conclusa e istruitissima. Della vita di lei egli seppe e trattò nelle lettere, discretamente, spesso con il fratello Carlo, tutto. Ad esempio, Paolina fu innamorata di un tale Ranieri o Raniero di nome. Carlo e Giacomo si scambiano lettere di impressioni su quel iovane e sul progetto. Non andrà in porto. Ma infine, per Paolina resterà il fatto di riempirsi di gioia a sapere che il suo Giacomo aveva infine un amico con quel cognome. Il Ranieri di Paolina fu il più amato d’una schiera di mezzi pretendenti che mai ottennero tale movimento del suo cuore, ma fu un giovane sfortunato. Un documento del Municipio di Filottano, riportato dalla biografa leopardiana Emma Boghen Conigliani,  attesta che egli subì “ dissesti di famiglia, entrò al servizio pontificio nella carriera giudiziaria, raggiungendo, a quanto si ricorda, il grado di governatore. Morì in fresca età, a seguito di malattia mentale…” Questa povera ombra, insieme agli altri uomini bruttissimi o vedovi che entrarono in mai chiuse trattative per il matrimonio di Paolina, non poterono certo oscurare nel cuore di lei il primato di Giacomo, il fratello che da ragazzino aveva tali occhi chiari. 
Ricordo d’aver letto che Paolina regalò a Giacomo un vestitino azzurro. In quel gesto affettuoso, e nell’ammirarsi lui così agghindato e forse già spaventato per la propria effige, intravedo uno stemma del loro rapporto. Lei lo amò con freschezza giovanile, con devozione crescente e anche con un senso di difesa contro le notizie che le giungevano sul suo conto e sul suo pensiero. Lui pose al centro del suo fuoco lirico e meditativo il problema di cosa vi sia di propriamente amabile nella natura e nella vita umana. 
Lei, uscendo finalmente da Recanati, al volgere finale di una vita concentratasi sugli studi, sulle traduzioni e sui lutti, volle andare, dopo un pugno d’anni passati a ben vestirsi e a far breve vita mondana, a morire in una città dal clima addolcito. E scelse quella che Giacomo amò, Pisa. 
    Con la donna amata il poeta vive sempre un’esaltazione e un dramma. Con la donna che lo domina nei versi e gli affina la visione c’è il senso di un’avventura infinita. Ci può essere uno sperdimento e un ritrovarsi, c’è l’inizio dell’alterità del mondo, e il punto di messa a fuoco e in fuoco della vita. Con la sorella c’è una separatezza e però una perpetua alleanza. C’è una complicità dello zodiaco e del sangue.  Paul Claudel quando scrive di Camille e rende omaggio all’arte di colei che egli stesso aveva provveduto a internare in un duro, grigio manicomio, sa di scrivere di se stesso. Claudel comprende che è anche suo quel destino di follia che la brucia, e che potrebbe essere sua la rischiosa dedizione completa all’arte a cui Camille aveva dato la sua esistenza, E che quella somiglianza è per lui ferita e sconfitta, ma anche legame e richiamo. 
Il segreto di quella somiglianza è la causa dell’improvviso vuoto che fanno le sorelle quando entrano anche nella più affollata scena. Non importa che siano devote o lontane, sfruttatrici o pazienti serve dei poeti. Esse portano con loro stesse qualcosa di unico e di primario. E’ come se fossero loro la prima compiuta forma di lettore, colui che Baudelaire chiamava “mon semblable, mon frère”. Non sono le innamorate del poeta, non sono state scelte da lui, non sono delle favorite. Ma custodiscono il primo tratto del legame che ha reso gli autentici poeti “frères” di tutti gli uomini. Custodiscono la prima annessione, la prima comunanza. Evitano, per così dire, la estraneità di questi uomini toccati col resto della umanità. Ne ricordano la prima, profonda somiglianza.
Arthur Rimbaud, dopo aver accolto i sacramenti, poco prima di terminare la sua febbrile e lunga agonia di viandante e di folgore della poesia, si volta verso la sorella Isabelle e le chiede: “Tu sei del mio stesso sangue: dimmi, tu credi, credi ?” E alla risposta affermativa di lei, ripete: “Possiamo avere la stessa anima, poiché siamo dello stesso sangue”.