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Su Auden

Su Auden

Credo che il poeta e premio nobel Josif Brodskij parli della poesia di W.H.Auden in modo eccellente ma limitato. 
Il che conferma che non basta che un eccellente poeta parli di un altro eccellente poeta perché vengano dette cose eccellenti sulla poesia, su ciò che nella esperienza che chiamiamo poesia conta veramente.
Ma il dialogo a distanza di due poeti permette di inserirsi in quel colloquio e di aprire magari un altro braccio del fiume, lungo il quale a qualcuno convenga avventurarsi e sia proficua la navigazione.

Le analisi di Brodskij delle poesie di Auden, ad esempio di In Memory of W.B. Yeats, sono sicuramente un bell’esempio di come vada commentata in pubblico una poesia, oltre che un esempio di intelligenza. E ogni poeta o lettore di poesia ha qualcosa di imparare da quegli esercizi.
Eppure Brodskij a mio modesto avviso erra quando sembra determinato a dimostrare ai lettori di Auden che essi si trovano finalmente di fronte un “poeta equilibrato”, che “si sentiva a casa propria nel Novecento, “a differenza dei suoi illustri contemporanei (di Yeats in particolare ma anche di Ezra Pound e di T.S. Eliot, il quale gli pubblicò la prima raccolta poetica essendo allora direttore della Faber and Faber) che erano le figure dominanti sulla scena poetica inglese di quel periodo”.
E’ difficile credere a Brodskij leggendo versi come 

(…)
Quella che noi chiamiamo Storia
Non è una cosa di cui menar vanto,

fatta com’è
dal criminale che è in noi:
la bontà è senza tempo.

(Archaelogy)

O è ancora difficile credere che Brodskij colga esattamente nel segno quando leggiamo quel che viene riportato da un’intervista di Auden nell’Ottobre del 1971 all’Herald Tribune:

“Quello che ora succede di spaventoso sono gli artisti che si domandano: “cosa è pertinente nel 1971?”. Bene, può essere importante che ciò che io scrivo all’età di 64 anni, ma è assolutamente senza importanza quello che scrivo nel ’71. Questa schiavitù nei riguardi del momento è la più tirannica di ogni altra costrizione che io possa pensare.”
In più punti e nella sua tessitura complessiva il poema, anzi la “ecloga barocca”, “L’età dell’ansia” provvede a mettere in proficua discussione la lettura di Brodskij. Lo stesso vale per la raccolta “Un altro tempo”. Il Novecento è stato un secolo fondato su varie flessioni dello storicismo e, di conseguenza, attraversato dalle reazioni “generate” da quella matrice. Auden, pur essendone informato e formato, non pare a suo agio in quella dialettica.
Ma Brodskij, va detto, dà quel giudizio su Auden come poeta “equilibrato” in opposizione alla figura di due poeti, che dunque dovremmo chiamare “squilibrati”: E. Pound e T.S. Eliot.
Non è qui il luogo in cui si possano nemmeno iniziare a esaminare analiticamente le ragioni che conducono Brodskij a compiere tale opposizione. Viene però il sospetto che Brodskij tema che la poesia del secolo di cui egli è uno degli apici risulti squilibrata. Andando dietro a Eliot e a Pound, sembra dire il recente Nobel, si andrebbe incontro a deprecabili disequilibri. Propone dunque, attraverso Auden, una sorta di possibile canone di equilibrio.
Di tale opposizione mi “servirò” piuttosto per aggredire una questione più importante e, per così dire, precedente.
Di certo, Brodskij non era uno sprovveduto e conosceva molto bene l’opera e la vita di Auden, con i suoi periodi di attraversamento e di transizione, con i movimenti del pensiero e della lingua che portarono questo poeta supremamente dotato a toccare varii paesi e varii registri, a modificare il proprio linguaggio per dare maggiore universalità e a confrontarsi con le teorie marxiste, con la guerra di Spagna, poi con quelle psicoanalitiche e con l’annuncio del cristianesimo.
Dunque, quando Brodskij dice che Auden è un poeta “equilibrato” evidentemente non intende “tranquillo”, pur se, nota il poeta esule dalla Unione Sovietica, egli non alzava mai la voce e offriva “metafisica travestita da senso comune”.

    Pochi poeti come la generazione dei cosiddetti “trentisti”, tra cui Auden e Stephen Spender, hanno subito quel che Brodskij chiamerebbe la tentazione del disequilibrio. 
Sotto la potente spinta di eventi storici coinvolgenti e drammatici, essi gettarono la propria giovinezza di aspiranti poeti nel frastuono della cronaca e del dibattito o della lotta ideologica. Alcuni tra loro lasciarono quella giovinezza nelle trincee, contro muri di fucilazione o sotto i bombardamenti. Come loro, milioni di giovani. Nessuno non ebbe tra parenti e amici un aprirsi del vuoto.
E’ naturale che quella poesia, una poesia di sopravvissuti, si misurasse con il volto ideologico e dialettico della storia.
Questo avvenne anche per Eliot e, in modi diversi, anche per Brodskij e per i nostri migliori poeti della seconda metà del ‘900.
Ha recentemente ricordato Mario Luzi che avviene ciclicamente che la poesia trovi dei momenti in cui gli accadimenti della storia sembrano suggerire la sua inutilità, la sua “morte” come qualcuno crede o ha creduto. Allora sembra che la poesia e i poeti debbano lasciare il loror proprio linguaggio per abbracciarne un altro. E’ acaduto negli anni ’30, ricordava Luzi, ma anche negli anni ’70 almeno in Italia.
In realtà si tratta di momenti in cui la poesia deve trovare una sorta di nuovo equilibrio.
Probabilmente Brodskij intende l’opera di Auden come uno dei luoghi –lui ritiene che sia il più importante- in cui tale nuovo equilibrio è stato riconquistato.
Per ora tralasciamo di indagare la grande ambiguità del termine “equilibrio”.
Registriamo che su tale termine, riferito alle questioni interiori del’’uomo, si sono costruite nell’ultima parte del secolo vere e proprie dottrine che ripescano dalle antiche, e, soprattutto, una moda e una vulgata che ne sottolineano il supremo valore. Nella vita quel che conta –dice la moda a gran voce e con molte voci- è l’equilibrio.
Ma come avviene in Auden, se avviene, tale riequilibrio ? Quale la via e il prezzo per tale conquista ?

In uno dei saggi raccolti dall’autore in “La mano del tintore” Auden parla della poesia come di un “rito”. E conclude:

“(…) Ogni poesia trova la sua radice nel timore reverenziale che si addensa nell’immaginazione. La poesia può fare mille cose, deliziare, rattristare, turbare, divertire, istruire; può esprimere tutte le sfumature possibili dell’emozione e descrivere ogni concepibile specie di evento, ma esiste una sola cosa che ogni poesia deve fare: lodare tutto ciò che può, per il fatto che esiste e che accade.”.

E’ una delle cose più belle che abbia mai letto intorno alla poesia.
Altrove egli si raccomanda che la poesia non “giudichi” ma ringrazi.
In altri punti egli parla della poesia come di un organo vivente e quando racconta a certi studenti le peripezie compositive di un suo testo egli suggerisce proprio l’idea di uno che tenga a un guinzaglio troppo lungo (una specie di guinzaglio contraddittorio con la propria natura di guinzaglio) una cosa viva e autonoma. L’esperienza di chi scrive poesia è proprio così. Si tiene un rapporto problematico con qualcosa che considerare proprio è affascinante, difficile e innaturale.
Ciò avviene non solo per quel che riguarda la fase di nascita del testo (come Dante sapeva bene) ma anche in quella fase similmente oscura che sono le ragioni della permanenza di un certo testo nella storia.
Ad esempio, una delle poesie oggi più conosciute di Auden (sempre che si possa utilizzare in qualche maniera la categoria di fama per la poesia, che invece è cosa refrattaria a qualsiasi cosa che non sia l’incontro attuale), è “Funeral blues”.
La ripropongo in una mia traduzione che, a differenza di altre che ho letto in lingua italiana, cerca di mantenere un corpo alla rima così spesso usata da poeti anglosassoni, i quali nella nostra lingua vengono purtroppo trasformati spesso in geniali prosatori che vanno a capo.

FUNERAL BLUES

Ferma tutti gli orologi, stacca il telefono,
anticipa il latrato del cane con un osso adeguato,
in silenzio i pianoforti e con un rullìo moderato
si porti fuori la bara, lascia che chi geme s’avvicini.

Lascia girare aereoplani lamentosi là in alto
scrivendo in cielo il messaggio Lui E’ Morto,
metti nastri al collo bianco dei colombi sulla via
e che abbia guanti neri nel traffico la polizia.

Lui era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est e l’Ovest,
la mia settimana di lavoro e il riposo che mi resta,
il mio mezzogiorno, la notte, il mio dire, il cantare;
pensavo fosse per sempre l’amore: ed ero in errore.

Le stelle non son più da cercare: siano tutte spente;
imballa la luna e anche il sole si smonti;
l’oceano svuotami e sradica il bosco
poiché nulla conosco che porti nessun bene.  

Questa poesia è stata resa celebre dal suo utilizzo in un film di successo. 
L’avrebbe mai immaginato il poeta ?
Voglio dire che la vita della poesia è molto simile alla vita della vita, determinata nel suo svolgersi dagli accidenti più strani.

Credo che l’equilibrio ammirato e forse auspicato più che riscontrato da Brodskij in Auden abbia a che fare con il desiderio del poeta contemporaneo di affermare, ad ogni costo, una sua centralità nella polis. Anzi una sua funzione assoluta. Verrebbe da dire: affermare che la condizione del poeta, per quanto lo possa essere storicamente, non è quella di essere in esilio dai territori importanti della cultura e della civiltà. E’ un’aspirazione nobile, certo. 
Solo che essa si fonda su un’idea astratta e ideologica, per quanto camuffata, di letteratura. 
Un’idea di letteratura come strumento conoscitivo principe e come bene ideologico da difendere e promuovere, è alla base della costante richiesta avanzata da Brodskij come da tanti poeti –anche di molto minori- a che venga riconosciuto un valore alla letteratura e di una sorta di dimessa ma tenace religiosità delle lettere.
Il poeta vale perché egli detiene, secondo questa idea, l’unica chiave interpretativa ancora utilizzabile sul mondo. Così, lo scrittore può finalmente uscire dalla sua odiosa condizione di eccentricità.
Sembra, la mia, un’affermazione mostruosa, e si potrebbe citare una sfilata interminabile di poeti più o meno famosi che hanno fatto della eccentricità il proprio stemma, e, a volte, il proprio programma etico e di pensiero.
Ora, alla fine di un secolo tormentoso come il Novecento, la eccentricità del poeta, il suo disequilibrio, non potrà di certo essere ricercato nella sua vera o presunta bizzarria nei rapporti sessuali, nelle sue idee sulla politica, o nella sua capacità di autopromozione sui media, tantomeno nell’utilizzo degli stessi.
Brodskij vorrebbe tirare Auden dalla sua parte, dalla parte di quelli che si sono accomodati nel secolo. Sono coloro che hanno ricavato un luogo per la esistenza della loro poesia, lasciando la pura e nuda esistenza della poesia a testimoniare un ordine controcorrente, o, se volete, un caos sotto la superficie. Hanno dato una delega alla Letteratura, al suo sistema, perché sia lei a perpetuarsi come valore. 
So di dire cose gravi. C’è chi insorgerà ricordando le censure, le reali sofferenze subite da molti a causa della loro poesia. Ma non è di questo che stiamo parlando. Permettemi, quando si parla di grandi poeti, di affrontare questioni più grandi del solito, e che non vogliono minimamente né screditare né dimenticare la sincerità di tanti e i prezzi pagati per questo.
Scrive Auden: 
“Dal secondo capitolo del Genesi apprendiamo che il Signore presentò ad Adamo, ancora in stato di innocenza, tutte le creature perché desse loro un nome, il quale divenne, dopo che Adamo ne ebbe attribuito uno a ciascun essere vivente, il rispettivo Nome Proprio. Adamo riveste qui il ruolo del Proto-poeta, non del Proto-prosatore.”. 
Con queste parole Auden sa di essere al cuore del problema.
Poco più avanti nello stesso saggio riflette sulla differenza dell’esperienza della poesia in culture che riconoscano socialmente e pubblicamente una distinzione tra la sfera del sacro e quella del profano. In tali culture, conclude Auden, “il poeta ha un ruolo pubblico, persino uno status professionale, e la sua poesia è pubblica o esoterica”..
Invece, in culture come la nostra, in cui tale distinzione non c’è, o, meglio “è considerata una questione personale di cui la società non si occupa né si deve occupare, lo status del poeta è quello del dilettante, e la sua poesia non è né pubblica né esoterica, bensì intima”.
Non è detto, nota giustamente Auden, che un tipo di poesia sia meglio dell’altra, ma la differenza resta. Anzi, aggiunge più avanti, “i grandi mutamenti nello stile delle arti riflettono sempre alterazioni lungo la frontiera che divide il sacro dal profano nell’immaginario di una società”.
    In quel saggio, Auden si rifà a teorie che qui non è possibile riprendere. Basti dire che è un saggio impegnativo e denso.
Il tema di cosa sia la poesia nell’epoca moderna è affrontato a più riprese da Auden, ad esempio nel saggio su “La poesia americana”.
Vorrei  solo avanzare un’ipotesi: il poeta equilibrato di Brodskij è forse il poeta che pur sapendo che la società in cui vive gli consente una poesia “intima”, fa in modo comunque di avere “uno status professionale” e una “poesia pubblica ed esoterica”. 
In altre parole, poiché nella cultura odierna –almeno nelle sue correnti portanti e massivamente dominanti- la distinzione tra sacro e profano è del tutto lasciata alla coscienza individuale, lo spazio pubblico e riconoscibile della poesia sta tutto nel saper ricavare per sé lo statuto di unico luogo comune in cui è visibile e percepibile tale distinzione e la messa in azione dei rapporti tra entità del sacro e del profano. O, detto altrimenti, il rapporto tra assolutamente individuale, gratuito eccezionale e il comune, il sistematico, lo storico.
 In altre parole ancora, il poeta che avverte nella propria natura qualcosa di valore pubblico e di “esoterico” nel senso di eccedente i confini del sapere convenzionale, e che però desidera o non può non stare in equilibrio con questa epoca deve convincersi e convincere che la letteratura è l’unico luogo comune in cui è visibile l’attività del legame con il sacro e il legame tra sacro e profano. Egli dunque da un lato non può che essere consono a quel che la cultura dominante ritiene fondamentale nell’intimo, nel pubblico e nell’eccezionale. Ma dall’altro dovrà affermare il proprio diritto di esistere come luogo privilegiato di tale cultura. Egli non comunicherà intorno alla vita qualcosa di sostanzialmente diverso da quel che le canzoni, i films e la cultura mediamente accettata offrono. Ma dovrà accampare il diritto di potersene occupare in modo speciale.
Non si tratta, anche se può somigliare, del tentativo di fare della poesia una religione, un luogo del “legame” con il sacro e tra sacro e profano. Questo elemento di naturale religiosità dell’esperienza poetica è coerente nei secoli e tantopiù in un’epoca che vive tutta la secolarizzazione e tutti i suoi rimbalzi.
E’ in gioco piuttosto qualcosa di più alto e complesso, che chiamerei la tentazione della poesia di farsi sacramento, ovvero “segno efficace di incontro tra il divino e l’umano”.  
Senza scomodare troppo i teologi, si può semplificare la cosa in questo modo. L’arte nella storia è sempre stata considerata un luogo di incontro tra l’umano e il divino. Ma il problema è “l’efficacia” ontologica e storica insieme di un gesto in cui quell’incontro avviene. Il sacramento è il punto di quell’incontro efficace: unisce, perdona, rigenera, etc. 
La letteratura si offre come sacramento del sentimento contemporaneo. Offre il tipo di consolazione che il lettore contemporaneo chiede al sacro, probabilmente avendo poca esperienza di cosa sia il sacro e ritenendo, come nota Harold Bloom nei suoi studi sulla religione americana, che Dio sia un ottimo strumento per realizzare se stessi, per conciliare i propri sentimenti etc. A un Dio siffatto si chiede un “sacramento minore”, poiché è in se stessi che si devono ricomporre le anomalie, e i peccati che, come diceva Péguy, non “sono più cristiani” e quindi sono solo “sentimenti contradditori”.
Si tratta di una missione affascinante e difficilissima: quante seduzioni, quante indigeste mescolanze, quante ambiguità! Si pensi, per dare l’idea, quanto oggi l’aggettivo di poetico e quanto gli stessi meccanismi del linguaggio poetico siano cercati e usati da diverse e più potenti forme di comunicazione.
In aggiunta, il poeta odierno deve ben guardarsi dal proporre questa sua convinzione con l’uso di toni e mezzi che risulterebbero patetici e incomprensibili. Nessuno può più scrivere poesia con la P maiuscola. Anche se, pur nel tono dimesso di saggi e prefazioni, questa illusione della poesia come ricongiungimento alla funzione adamitica del dare il nome proprio è diffusa ed egemone. 


Tale missione è tanto più “giustificabile” in un tempo in cui la lingua della pratica ideologica e politica, della pratica religiosa e della stessa pratica appartenenza a luoghi comuni appare in difetto nel saper dare il nome proprio alle esperienze basilari della vita e ai suoi dettagli.

“I vari Sondaggi d’opinione rilevano soddisfatti
che aveva l’opinione giusta al momento giusto;
(…)
Era libero ? Felice ? che domande assurde:
se qualcosa non avesse funzionato, di certo ne saremmo informati”.


(Il cittadino ignoto)

Tale missione sembra raccogliere i suoi frutti: che non sono calcolabili in acquisizioni di status economico o formalmente pubblico del poeta. Ma è una corrente chiara. Mai come oggi la figura del poeta è vista con un misto di ammirazione aprioristica e di accettazione. Mai come oggi la proposta della poesia come luogo di incontro tra sacro e profano è accettata e cercata.
Eppure, a mio modesto avviso, si tratta di una missione sbagliata proprio in quanto “impossible”.
Infatti la relazione tra sacro e profano che si mostra nella poesia, e nell’arte in genere, non è per così dire soddisfacente. 
Deve averlo capito il vecchio Auden. Qui inizia il suo disequilibrio rispetto a quel che vorrebbe Brodskij. 
Se ha scritto “L’età dell’ansia” ci deve essere stato un motivo del genere. 
Egli non ha esitato a cantare un inno in memoria di Freud, il quale 

“comandò soltanto
all’infelice Presente di recitare il Passato
come una poesia finché prima
     o poi inciampò nel verso in cui

molto tempo fa erano cominciate le accuse,
e scoprì all’improvviso chi l’aveva giudicato,
quanto ricca era stata la sua vita e quanto sciocca,
e divenne indulgente e più umile, 

capace di avvicinare il Futuro da amico
senza un guardaroba di scuse, senza
una maschera fissa di rettitudine o
un imbarazzante gesto d’eccessiva familiarità”


E scrive in un saggio:
“Ogni bella poesia presenta un’analogia con il perdono concesso ai peccati: un’analogia, non un’imitazione. Non sono infatti le cattive intenzioni a suscitare pentimento e a trovare perdono, ma i sentimenti contraddittori, conciliati nella poesia a cui il poeta li ha affidati per la loro remissione.
L’effetto della bellezza è buono, dunque, nella misura in cui grazie alle sue analogie, il bene della creazione, la caduta storica nella mancanza di libertà e nel disordine, e la possibilità di riconquistare il paradiso e il perdono, trovano riconoscimento. Il suo effetto è malvagio nella misura in cui la bellezza viene considerata non analoga, ma identica alla bontà –per cui l’artista si vede o è visto dagli altri come Dio-, il piacere della bellezza viene scambiato per la letizia del Paradiso, e si giunge alla conclusione che, se tutto è bene nell’opera d’arte, tutto è bene nella storia. Ma nella storia non tutto è bene.”
Del resto il suo così amato poeta Robert Frost, scrive nella prefazione ai suoi Collected poems, citata da Auden nel saggio a lui dedicato:
“(Una poesia) inizia nella gioia e finisce nella saggezza…un’illuminazione della vita –non necessariamente una di quelle grandi illuminazioni su cui si fondano religioni e sette, ma un momentaneo equilibrio contro il disordine”.

    I versi finali della poesia segnata con il XXIV nella serie “People and places” dicono:

“…Le nostre lacrime sgorgano da un amore
che non abbiamo mai superato; le nostre città predicono
    più di quanto speriamo; persino ai nostri eserciti
    tocca esprimere il nostro bisogno di perdono.”

    Cosa è il perdono se non lo stabilirsi di una relazione tra sacro e profano che vada a vantaggio del profano così come è, vale a dire che non gli chieda di essere “già” diverso ? Il perdono è quella azione per cui l’errante rimanendo errante non è più votato alla disperazione del cammino. Il legame tra sacro e profano trova nel perdono la sua sintesi più alta e inimmaginabile. 
Che cosa è l’ansia se non il perdurare di un disagio, di una situazione in cui un male non trova non già una risoluzione ma una lettura in pace nel bene ?
Nella parte finale di “L’età dell’ansia” si trova una prosetta:

“Alcool, lascivia, fatica e l’ansia di esser buoni avevano a questo punto provocato uno stato di euforia, sicché sembrava loro che soltanto un errore trascurabile e facilmente rettificabile, una dieta sbagliata, un’educazione inadeguata o un codice morale superato tenessero il genere umano fuori dal millenario Paradiso Terrestre. Solo un altro piccolissimo sforzo, forse soltanto l’individuazione dei termini esatti della descrizione, e la gioia totale sarebbe immediatamente discesa sopra le forze armate stupefatte del mondo terreno ad abolire per sempre tutto l’odio e la sofferenza.”

Può accadere di pensare alla poesia oggi come “l’individuazione dei termini esatti”, una riproposizione adamitica e di quella “innocenza” ontologica in cui l’uomo poté dare il nome proprio alle cose. E dunque stabilire per la Letteratura una missione universale.
Quando i poeti, come fece pure Auden, dicono di avere un solo dovere, anche politico, che è “difendere la propria lingua dalla corruzione”, lo fanno con buone intenzioni, riconoscendo che “quando il linguaggio è corrotto la gente perde fede in quel che sente, e ciò conduce alla violenza”. Ma dietro un’affermazione che pare quasi dimessa, si nasconde una presunzione ancora maggiore di chi dicesse che la poesia cambia i destini delle nazioni.
La poesia, secondo i poeti che parlano così della poesia, ha la forza di difendere il linguaggio, di ricomporre la situazione adamitica del linguaggio. Come se la violenza fosse il frutto di un errore nel dare il nome alle cose. No, anche quel che noi possiamo chiamare con più sicurezza “amore” spesso si corrompe tra le nostre mani; anche quel che chiamiamo con più esattezza dolore viene dimenticato.  La poesia, se vuole essere in qualche modo utile, deve riconoscere i fattori dell’esperienza, non travestirli così come fanno le ideologie alte o basse, gridate o a mezza voce. La maggior parte dei poeti di oggi –allo stesso modo dei giornalisti di oggi e dei professori e degli psicologi - sono propensi ad ammettere un difetto di innocenza storica nell’uomo (bisognerebbe esser ciechi, del resto) e, di riflesso, un difetto di forza utopica della poesia. Ma si trovano completamente dentro quel che aveva individuato Baudelaire, quando vedeva nella perdita del senso del peccato originale il segno e la misura della civilizzazione secondo la cultura moderna. Sono in questa stessa corrente. 
Tranne rare eccezioni. Auden sta per così dire a cavallo. Il suo traffico con la psicanalisi freudiana e con il cristianesimo è stato probabilmente un serio tentativo di fare i conti con ciò che scrisse, anziano, in “Grazie nebbia”.

    “L’Uomo deve innamorarsi 
di Qualcosa o di Qualcuno,
o altrimenti ammalarsi”
    

    Un discorso a parte meriterebbe, a questo punto, quanto Auden ha sostenuto in un “Poscritto” dedicato al tema del rapporto tra cristianesimo e arte. Ma si andrebbe di lungo.
Egli vede bene che “non può esistere un’arte cristiana” definita come tale dal soggetto trattato dall’opera. C’è invece uno “spirito cristiano” entro cui un’artista può operare, dipingendo una natura morta piuttosto che una crocifissione.
Ma il punto più interessante è quando Auden si augura che esista una risposta alla obiezione che, secondo certe interpretazioni, vede inconciliabili il dato della rivelazione cristiana e l’immaginazione artistica. 
L’avvenimento di Cristo infatti produce una crisi nella immaginazione che considera ovvio il sacro, così come nella capacità di rappresentazione.
Egli cerca perciò di elaborare una visione che chiama di “materialismo consacrato”, opposta al politeismo. Un materialismo religioso per cui “ogni cosa è fondamentalmente seria”. 
Qualcosa, riconosce Auden, che è molto vicini a una sorta di  panteismo, ma che è più consono a lui di un politeismo che divide la realtà in cose sacre e cose profane.
In tale visione l’artista non riesce a tornare ad essere un profeta e rischia di essere solo il comunicatore efficace di una verità stabilita da altri (nel mondo moderno: la scienza). Però ha un esistenza libera.
Auden, probabilmente preso da una urgenza di tipo innanzitutto morale, non arriva quasi mai a sfiorare il problema del rapporto tra arte e cristianesimo dal punto di vista esistenziale o ontologico. Si direbbe che cerca una sorta di vademecum contro gli errori. Come se il cristianesimo fosse una dottrina contro gli errori e non l’avvenimento di un incontro eccezionale con il Dio incarnato.
    Ma su questo, come detto, il discorso si dilungherebbe.