hacklink al hd film izle php shell indir siber güvenlik android rat duşakabin fiyatları hack forum fethiye escort bayan escort - vip elit escort hacklink güvenilir forex şirketleri
Su Calvino

Su Calvino

Le cinque lezioni americane di Calvino ci mostrano uno dei maggiori esempi di intelligenza applicati alla letteratura. Scopo del presente testo è di mostrare come Calvino fallisca proprio nello scopo di difesa del proprium della letteratura che si era prefissato. Non fallisce poiché poco esperto o poco documentato, né poiché poco intelligente. Ma perché è viziato da  un difetto tipico degli intellettuali moderni: il pregiudizio. Il quale lo mena fuori strada, anzi all’opposto delle sue buone intenzioni.
Non intendo –né saprei come fare, del resto - mettere in discussione punto per punto Calvino e il suo sincero sforzo di portare e di lasciare alcune cose valevoli dietro di sé come frutto di una matura e dotta riflessione. Ma credo di aver letto queste lezioni con maolta più passione di tanti che le osannano e le riutilizzano nelle aule universitarie e nelle scuole. Perché ho stima assoluta del tentativo di Calvino e della sua sincerità nel perseguirlo. E perché credo che quel che lui ha provato a fare sia un lavoro che ciascuno scrittore dovrebbe fare, in modi diversi. Magari con più ironia, alla Carver. Ma Carver non è Calvino.
Mi limiterò a muovere alcuni appunti di lettura. Ma appunti appuntiti, credo, come la passione sa appuntire.

Dunque: leggerezza. E’ la lezione fondativa, se così si può dire, quella dove l’autore dispone le sue pedine. Quella, si dice, meglio lavorata.
“Ho cercato di togliere peso”. Questa è la dichiarazione di poetica che apre e percorre tutta la riflessione. 
L’accorgersi di una “lenta pietrificazione” delle persone e delle cose, che non risparmia “nessun aspetto della vita”: questo è il punto di partenza, e di arrivo, circa il contesto in cui si muove l’opera di creazione e di giudizio.
Lo scrittore parte da un dato che ritiene assodato per sempre, almeno assodato per sempre a partire dall’epoca moderna: il mondo è greve, anzi più precisamente l’esistenza è greve. Il mondo, infatti, è un oggetto che lo scrittore – seguendo i dettati dei philosophes amati: i quali, da Bruno a  Bathes sotto le varie maschere hanno quella finale di Lucrezio e il profilo di Epicuro - potrà rivelare leggerissimo, pulviscolare, illusorio, combinato in infinite possibilità. Ma l’esistenza, la nostra esistenza, quella che scontiamo vivendo, la nostra condizione umana, è irrimediabilmente greve.
C’è qualcosa dell’essere uomo che è grave, da alleggerire. E non è la morte. O almeno Calvino non la chiama mai.
E compito della intelligenza è compiere il salto di Cavalcanti narrato dal Boccaccio, un salto che fugge alla pietrificazione. “Forse solo la vivacità e la mobilità del’intelligenza sfuggono a questa condanna: le qualità con cui è scritto il romanzo, che appartiene a un altro universo da quello del vivere.”

Il mio sangue e la mia carne (e la mia intelligenza) si ribellano con tutta la loro forza molecolare a questa sentenza già stilata in anticipo.
Nessuna salvezza per la carne, per i cari sensi, nessuna mobilità della vita tutta intera, decapitazione –la testa da una parte e il corpo da un’altra (almeno gli antichi preti avevano più rispetto: l’anima che se ne andava lasciando, ma provvisoriamente!, il corpo era più che l’intelligenza, era il soffio stesso di Dio, dato a stupidotti e a professori, a ignoranti e a dotti, persino ai dementi).
Calvino inizia a parlare della letteratura a processo concluso: i giudici sono usciti, gli scanni svuotati, anche il pubblico scema, le toghe sono già ripiegate. Bene, ora si parla di letteratura, di poesia etc etc. Ma non più dentro al processo, non più nel vivo del dibattito. Il bello della faccenda è già passato. 
I filosofi e gli storici hanno già letto la sentenza. I poeti e gli scrittori possono ora procedere al ricamo. Ora dedichiamoci alle conseguenze letterarie.

La prima questione è la dislettura di Dante. Il che non è poso, visto che queste sono lezioni tenute da un italiano nella terra dove sono sorti i maggiori dantisti contemporanei.
Dovendo sistemare la questione un po’ banalotta di una divisione degli scrittori tra quelli della leggerezza e quelli della pesantezza mette Dante tra i secondi, poi si ricorda della poesia del Paradiso, poi dice che Dante però vuole dare sempre il peso esatto delle cose. Insomma, banalità.
A Calvino sfugge competamente la forza del movimento di Dante.
Gli sfugge la forza di movimento della parola poetica, che in Dante mette in moto tutta la libertà e la varietà dell’umano, allineando nel panorama di un viaggio umano le possibilità dell’inferno, del purgatorio e del paradiso. 
Per Calvino tutto questo movimento è sostanzialmente inutile: il giudizio di pietrificazione del mondo è definitivo. Una pietrificazione che è rivelazione dell’inconsistenza, una pietrificazione del nulla. Non c’è altro moto.
“Ma forse l’inconsistenza non è nelle immagini o nel linguaggio soltanto: è nel mondo. La peste colpisce anche la vita delle persone e la storia delle nazioni, rende tutte le storie informi, casuali, confuse, senza principio né fine. Il mio disagio è per la perdita di forma che costato nella vita, e a cui cerco di opporre l’unica difesa che riesco a concepire: un’idea della letteratura”.
Sembra una frase eroica. Lo è forse nella sua sincerità. Ma è un pregiudizio terribile e banale. Né Dante, né qualsiasi poeta che tenga aperti i conti tra vita e letteratura, tra scoperte della vita e della letteratura sottoscriverebbe questo de profundis per la vita con il relativo collocamento della idea di letteratura su uno strano e improbabile bastione di difesa. Che essa sia “l’unica difesa” che Calvino riesce a “concepire” indica solo il limite della sua concezione. 
La stessa idea poco sotto espressa della letteratura come “terra promessa” del linguaggio, poiché nell’azione letteraria è possibile un’opera di correzione continua fino a un certo limite che tenta di soddisfare l’autore delle proprie parole, indica che ci muoviamo in un ambito in cui lo scrittore cerca e può trovare soddisfazione nella letteratura. 
W.H. Auden parlava della poesia come l’azione del dare il nome proprio alle cose.
Parlando di Adamo come del proto-poeta, egli indicava la necessaria e inesausta connessione tra la terra della letteratura e la terra del mondo. Così perlatro Auden indicava anche un compito infinito alla letteratura e alla poesia, un compito che ne giustifica la permanenza e che si avvicina a render possibile quel che sognava il Roland Barthes citato da Calvino “allorché si domandava se fosse possibile concepire una scienza dell’unico e dell’irripetibile. (…) Une Mathesis singularis”.
Tale scienza dell’unico ed irripetibile, direbbe Piero Bigongiari, è una scienza nutrita di stupore. Ma lo stupore richiede che nell’oggeto esaminato vi sia “dentro” un punto di fuga, un elemento continuamente fonte di stupore. E’ quell’elemento che ancora Auden indicava quando diceva che in poesia si può trattare di tutto ma “esiste una sola cosa che ogni poesia deve fare: lodare tutto ciò che può, per il fatto che esiste e che accade”. In Calvino questa percezione della lode per l’esistente (altrove Auden parla di ringraziare) manca. 
L’elemento continuamente sfuggente ma altrettanto certo che rende la cosa esistente lodabile in quanto esiste si chiama essere o infinito creatore. Averlo preventivamente negato o cacciato nella enciclopedia delle cose già risapute e poco interessanti è l’origine della percezione della pietrificazione del mondo.
Se altrove Calvino è chiaro nel dichiarare che “il simbolismo di un oggetto può essere più o meno esplicito, ma esiste sempre” lo è altrettanto nel chiarire che la corsa delle parole e della nostra nominazione è verso il vuoto. Così che la proprietà della letteratura (in narrativa o in poesia) è nel creare una figura, l’unica figura possibile, in un mondo che non ha figure, l’unica forma in un mondo che non ha forme, e anche l’unico organismo o parvenza di esso in un mondo che non ha più esistenza. Il salto di Cavalcanti che Calvino sceglie come emblema della vivacità e della mobilità dell’intelligenza, uniche a sfuggire alla condanna del vivere, è anche l’emblema di chi cerca nella scienza le conferme che la vita è davvero quella leggerezza che la scienza di Pitagora e la filosofia di Epicuro ritengono, poiché “la letteratura non basta ad assicurarmi che on sto solo insegunedo dei sogni”. Quelle dottrine sono espresse nella scrittura. Non a caso Calvino annota che per come ce lo presenta Ovidio, Pitagora “somiglia molto a Budda”.
In queste lezioni Calvino ci fa capire che il vero scrittore contemporaneo deve essere un nuovo Ovidio. Poiché una cosa è certa: oggi chi va per la maggiore sono maestri come Epicuro, Budda e Pitagora. Calvino invita gli scrittori ad accorgersene. In questo è radicale e programmatico, con la stoffa del vero intellettuale di valore ed engagé. Basti vedere l’assoluta ininfluenza della cultura cristiana nell’autoritratto intellettuale che fa di sé questo autore italiano in vsita negli Usa.
Sono lezioni funeree. Tipiche dell’intellettuale moderno: senza esperienza nessuna di letizia, ma con un cupo fondo di tristizia montato da un ghirigori di ironia che non riesce mai ad aprire il sorriso. Non è una colpa, beninteso, ma un fatto.
Da questo punto di vista è comprensibile che per Calvino Dante, come Ignacio di Loyola (e non sarà un caso che si tratti di due autori cristiani) sia interessante in quanto straordinario genio dell’immaginazione e solo come punto di partenza per un’analisi delle idee sulla immaginazione e sulla loro evoluzione storica, con l’ausilio di Starobinskij. La sua difesa del valore della visibilità –peraltro oggi ancor più condivisibile, date le mutazioni da Calvino previste e ora in atto- è però per così dire, sorda al suggerimento dantesco circa la verità di un livello dell’esistente che muove la immaginazione. La difesa dell’immaginazione come “una specie di macchina elettronica che tiene conto di tutte le combinazioni possibili e sceglie quelle che rispondono a un fine, o che semplicemente sono le più interessati, piacevoli e divertenti” coincide –ma Calvino se ne accorge ?- proprio con l’apologia di quegli strumenti che dominando oggi il sistema dei media stanno uccidendo il valore della visibilità. Il suo pienamente riconoscersi in una idea di immaginazione come “repertorio del potenziale, dell’ipotetico, di ciò (…) che avrebbe potuto essere” è, in ultima analisi, una adesione al principio di inconsistenza del visibile, di sua pietrificazione, per quanto ricamata e sgargiante, del niente.
Diceva Flannery O’ Connor che nel Novecento si sviluppa un’arte con un grande sviluppo della sensibilità e pochissima visione. Per quanto freda e austera, l’idea di letteratura di Calvino premia la eslatazine della sensiblerie. Egli infatti non affronta il problema della visione, non affronta Dante e il tipo di movimento che il grande poeta riconosce e riattiva nelle parole, nel linguaggio in quanto lo riconosce nell’esistenza.
Per tutto il suo poema Dante ci dice di essere costituito dal rapporto con l’Altro e che non solo la sua tensione morale e la sua virtù di conoscenza, ma anche quel che gli è più proprio come poeta, la parola e l’immaginazione, si costitusicono in quel rapporto con l’Infinito.
Io è un altro, avrebbe scritto Rimbaud che, a mio modesto avviso, smise di scrivere perché nella sua condizione personale e culturale non gli pareva più possibile la stessa esperienza di poesia come azione, come moto vitale, di Dante.
Quando nelle pagine successive difende come valore la “molteplicità”, Calvino indica che “lo scetticismo di Flaubert, insieme con la curiosità per lo scibile umano accumulato nei secoli, sono le doti che verranno fatte proprie dai più grandi scrittori del xx secolo”. La sua previsione si  avverata, con il dubbio che siano essi i più grandi scrittori. Sotto questo profilo, appare un ppo’ stiracchiato il suo stesso tentativo di accostare Gadda e Borges al Perec e al suo iper-romanzo “La vita, istruzioni per l’uso” in cui “per sfuggire all’arbtrarietà dell’esistenza” si ha “bisogno di d’imporsi delle regole rigorose (anche se queste sono a loro volta arbitrarie).”.
Non credo che Gadda né Borges siano riconducibili in questo quadro, così come nemmeno altri grandi scrittori come Kafka o Mutis. E Calvino è poi costretto a eludere nella sua analisi alcuni filoni vitali della modernità che va da Baudelaire a Eliot, da Yeats a Auden, a Frost, a Milosz. Così come non può “prevedere” l’opera di Dostoevskij o di Campana  o di Luzi.
La molteplicità come regola del romanzo inteso come  “grande rete” tende alla moltiplicazione dei possibili e vuole in fondo documentare la risposta che Calvino stesso dà esplicitamente alla domanda”chi siamo noi”: “chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni ?”
E’ paradossale, ma non troppo: questa è la stessa risposta che è implicita nella ultima campagna pubblicitaria di un grande provider internet.
Se la visione antropologica offerta dall’esperienza della letteratura è la medesima della fruizione della virtualità, proprio chi ne promuove la nobile difesa si mostra il maggior alleato della sua inessenzialità.