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Su Campana

Su Campana

I grandi poeti sono obbligati all’umiltà. A sparire nella terra, nell’humus, nella terra che li genera, che è misteriosa. Vuoi per ignoranza sulle condizioni della loro reale esistenza (di Dante, in definitiva, sappiamo poco con certezza) o, all’opposto, per esubero e complicarsi di indagini si arriva a non raccapezzarsi più bene. La biografia dei poeti offre lo sgomento di una profonda inafferrabilità. Anche in questo la loro presenza nella storia indica qualcosa di valevole per tutti. Chi mai di noi, infatti, è “afferrabile” completamente dai propri simili ? 
Estremo, quasi violento nella sua luce particolarissima è il caso di Dino Campana. La sua vita per nulla piacevole (morì dopo un lungo internamento in manicomio nel marzo del ’32)  è stata destinata ad esser piacevole pasto per la curiosità dei letterati da salotto e materia succosa per le zanzare delle Università. A lui, che a Bologna fece fatica a trovare un letto dove dormire, Bologna ha dedicato nel luogo più prestigioso della città, l’Archiginnasio, un convegno e una mostra, “I portici della poesia ”. Campana pubblicò qui, su alcune riviste goliarde, le prime elaborazioni di quello che sarebbe divenuto un capitale libro della nostra letteratura, I Canti Orfici. La documentazione offerta dal dibattito e dalla mostra bolognesi è ricca e ghiotta per appassionati ed esperti. Il lavoro condotto da Marco Antonio Bazzocchi e da Gabriel Cacho Millet è rigoroso e appassionato. Dopo l’apertura della padrona di casa, l’Assessore Marina Deserti, che ha ricordato la vitalità plurale della presenza della poesia a Bologna, l’intervento introduttivo di Ezio Raimondi ha sottolineato la forza di testimonianza del “luogo” nella poesia di Campana, e il suo contributo alla creazione di un legame tra passato e futuro. Millet ha ripercorso la trama vitalissima e ombrosa dei rapproti con Binazzi, Morandi, Bacchelli e altri.Marco Antonio Bazzocchi, dopo aver ripreso i ritratti che si hanno del Campana bolognese, si è addentrato a cogliere le suggestioni, oltre che di Nietszche, del Faust goethiano e di un’opera come “Sesso e carattere” del Weininger –suicida poco più che vent’enne-. Ma anche in questo caso il Bazzocchi ha chiuso il suo discorso con la domanda, più forte di prima: “Ma chi era, chi è stato Dino Campana ?”
Più volte Mario Luzi, il più veramente campaniano dei nostri poeti –campaniano nella poesia, intendo, dov’è più difficile esserlo, giacché negli atteggiamenti esteriori oggi siamo tutti diventati un po’ Campana- ha avvertito: non soffermiamoci troppo a spulciare la biografia. E ha sottolineato piuttosto la grandezza di quel libro venuto fuori tra mille difficoltà e pieno di emblemi letterari ed artistici del passato presi a prestito per indicare emblemi profondi del vivente. E’ un libro che “reca una vitale proposta di liberazione all’uomo moderno”. Perché ? Leggendo i Canti Orfici si è da subito persuasi che non c’è cosa più falsa della presunzione umana di essere “il centro” dell’universo, di esserne il legislatore, il misuratore. E Campana non ristà, come molta cultura moderna, in una posizione di lamento o di disdegno alla Capaneo, per questa riconosciuta “diminuzione” della presunzione umanistica e romantica. I suoi appunti notturni, di viaggio, le poesie lasciate a mezzo, i versi stupendi che lampeggiano, sono l’alfabeto di una lingua umana spesso dimenticata: non la lingua del presuntuoso che si lagna se il mondo non è fatto come dice lui, ma il balbettare, il gridare, il dare in escandescenze di chi si sente attratto da un andamento infinito, stragrande, da una misura più vasta della sua mente. Il cinema dell’universo lo attrae. Campana non è stato eccessivo come uomo (è stato un povero Cristo come tanti) ma lo è stato veramente come poeta, rispetto a tanti poeti che si sono ripiegati nel lamento della propria presunta centralità perduta, quindi senza più stupore, o con stupori pallidi dinanzi alla soverchiante vita. Eccessiva, felicemente eccessiva, la sua poesia, reca nella pagina iniziale dei “Canti Orfici” le stesse due parole con cui Paul Claudel definiva Rimbaud: mistico, selvaggio. L’umiltà tetra in cui è stata inghiottita la sua esistenza fisica è prodigiosamente restituita – e mi verrebbe da dire: inizialmente risorta- come umiltà luminosa nella sua opera, che sommuove e rilancia. Andrea Zanzotto, con al collo una sgargiante cravatta presa in prestito per l’occasione, è intervenuto al convegno bolognese a ritirare il premio Campana, conferitogli per un libro, “Sovrimpressioni”, che non è il suo più vivo. Il poeta di Pieve di Soligo ha ripercorso sul filo di ricordi il suo rapporto con la lettura dell’autore degli Orfici. Un rapporto segnato anche dalla voglia di litigare, e dalla rabbia che quel poeta non fosse abbastanza “distante”, ma soprattutto dalla certezza che egli evesse sempre “ragione”.