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Su Flannery O'Connor

Su Flannery O'Connor

Cattolico, cioé artista

di Davide Rondoni.


    Qualcuno la paragona a James Joyce, qualcun altro ha scritto che la sua opera va oltre quella di Dostoevskij, Poe e Kafka. Lei era orgogliosa di possedere un cospicuo numero di pavoni, un pollo che camminava in avanti a anche all'indietro e di essere nata nella stessa cittadina di Oliver Hardy, il nostro Olio della mitica coppia con Stanlio. Di certo, dalla lettura dei racconti di Flannery O'Connor, nata nel 1923 e morta a soli trentanove anni, non si esce indenni. Una forza originalissima colpisce, uno sperdimento resta sul nostro volto, insieme a una domanda la cui formulazione si fa largo molto lentamente dal fondo del nostro essere.
"Perché sono cattolica non posso permettermi di essere niente di meno che un'artista". In queste parole sono sintetizzati tutti i motivi della forza della O'Connor. Si tratta di parole che entrano nel corpo della nostra epoca con una acutezza e una provocatorietà senza pari. 
T.S. Eliot, infatti, già nel 1932 scriveva che si era allora entrati nella terza fase della vita del romanzo per quel che riguarda lo stato dei rapporti tra letteratura e religione. Nella fase, cioè, in cui gli autori di narrativa "tranne James Joyce (...) non hanno ai sentito parlare della Fede Cristiana se non come di un anacronismo." In queste poche pagine introduttive esamineremo quelle succitate parole della O'Connor: in esse vi sono gli elementi della coscienza e del giudizio che agiscono e si rivelano nella sua opera, e che fan di lei una delle scrittrici più "attuali", nel senso della smisurata capacità di essere contemporanea, non certo nel senso della moda.

    Al termine della lettura di questo libro, si troverà, come accade tra i critici che hanno da poco iniziato a studiare la O'Connor, chi apprezzerà (o disprezzerà) l'intensità di realismo delle storie, chi, invece, apprezzerà (o terrà in dispetto) la crudele violenza dei fatti narrati; e ancora, ci sarà chi crederà di ravvisare l'elemento di interesse per un lettore attento al fenomeno cristiano in questa o quella caratteristica dell'opera (i temi, i riferimenti biblici, la visionarietà, l'idea di morale). Io credo che tutto questo cada nel campo delle conseguenze: il cuore dell'arte della O'Connor batte prima, o meglio, sotto. Ed esattamente a quel livello per cui essa non può essere considerata una "scrittrice cattolica" se con questa categoria si intende, per l'ennesima volta, creare un luogo "a parte".
Non si può dire della O'Connor che è una scrittrice cattolica nella misura in cui nessuno si sogna di usare come definizione per Caravaggio o per Michelangelo quella di pittori cattolici. Eppure lo erano, eccome. 
Il valore e la forza eversiva, che come ogni grande opera d'arte anche quella della O'Connor porta con sè, somigliano alla forza gratuita di ogni grande evento naturale (non siamo mai così stupiti come quando ci accorgiamo di una cosa spettacolare che esiste in natura) e hanno a che fare con il richiamo di ciò che rende un'opera d'arte tale e della sua funzione nel ri-velamento del mondo. 
In altre parole, si tratta di capire perché  un cattolico dei giorni nostri non può che essere un'artista.  

    Un'artista si qualifica come tale per una caratteristica che non pertiene anzitutto alla sua intelligenza o alla sua moralità, almeno nell'accezione con cui correntemente sono impiegati questi due termini. Si può dire che nel grande artista di ogni tempo agiscono un'intelligenza e, quindi, una moralità riconoscibili come piùautentiche  rispetto a quanto in una determinata epoca viene considerato intelligente o buono. Questo vale sicuramente per Omero, come per Dante, ma anche per Baudelaire, per Rimbaud e per Eliot, come per Gaugin e per Shuterland. Un'artista è generalmente altro  da un uomo inteligente e buono. Ma lo è nel senso che costringe chi ne osserva l'opera ad accedere ad una scoperta, ad una esperienza dell'intelligenza e della morale più profonda di quella che l'opinione comune e l'abitudine gli propongono. 
In tal senso si comprende bene cosa si intende nell'estetica cristiana quando si afferma che tutti i genii sono in qualche modo "profeti". La loro opera, infatti, costituisce un superamento dell'intelligenza, una inquietudine dell'etica del proprio tempo, poichè essa realizza uno speciale annuncio di cosa sia la realtà. 
Le loro opere rivelano il reale.  I corpi michelangioleschi come gli ori di Rublev, le colline del Parmigianino come le ragazze di Modigliani, i felici strazi mozartiani come gli avvi di Beethoven, gli interrogativi leopardiani, l'energia del verso luziano, la madre fidanzata di Pasolini e quella di Caproni: sono tutti esempi di quanto il gesto dell'artista spinga lo sguardo interiore ed esteriore di chiunque a considerare la presenza della vita, il reale con un'attenzione e una passione, tra dedizione e com-passione, maggiori. 
In questo senso, per chi come Flannery O'Connor abbia riconosciuto che la realtà è fatta da e quindidi Dio, il gesto artistico è una via alla (ri)scoperta della natura misteriosa della realtà. "La mente che sa capire la buona narrativa non è di necessità quella istruita, ma la mente disposta ad approfondire il proprio senso del mistero attraverso il contatto con la realtà, e il proprio senso della realtà attraverso il contato con il mistero" (Natura e scopo della narrativa). Con queste parole la O'Connor descrive il proprio lettore ideale, e ancor di più spiega perché  poche pagine dopo scriva: "San Tommaso chiamava l'arte ragione in atto. E' una definizione molto fredda e molto bella, e se oggigiorno è impopolare, è perché la ragione ha perso terreno fra di noi."
Dal che si comprende che oggi un cattolico non possa che essere un'artista. Oggi come non mai, infatti, agiscono tali e tanti modi di "riduzione" della natura del reale, che chi riconosca nell'esistenza un'esperienza del mistero compie, anche con la sola azione di dare ragione della propria fede, un atto analogo a quello dell'artista. Il mistero incarnato, annuncio stupito dell'avveniento cristiano è vertice e conferma di tale riconoscimento. L'incarnazione, da questo punto di vista, si può considerare l'imprevisto gesto artistico con cui Dio ha rivelato la natura della sua stessa creazione. Traversare e rompere le convinzioni ormai inveterate che la realtà sia frutto e proiezione del proprio sentimento (o del gioco dei propri equilibri interiori), o che sia un niente di niente a cui abbandonarsi casualmente come in una nebbia, o che sia il risultato di quanto l'uomo possa capire e operare su di essa, è un azione che mette in campo la stessa differenza e la stessa intensità di un gesto artistico. In un'epoca in cui la ragione è "impopolare" (mentre, terminata la voga di uno sterile razionalismo, vanno di moda molti indebolimenti della ragione) il gesto dell'uomo di fede, il quale ritiene ragionevole considerare il mistero come realtà utima e non come un'altra dimensione, bensì comereale da cui sorge il reale,  somiglia al gesto artistico autentico, offrendosi come originale contributo alla difesa e alla esaltazione della ragione. 

    Flannery O'Connor ha detto e vissuto queste cose con l'intensità e l'ironia che le provenivano da un temperamento umile ma battagliero, arguto e poco incline alle smancierie. E con la urgenza che la dura situazione esistenziale in cui la malattia l'ha gettata. Soprattutto con la integralità che proviene da un giudizio chiaro e che si accompagna ad un agire libero e disinvolto.
Per lei può valere quanto Pavese scriveva nel 1934 a proposito di certe pagine di W. Faulkner: "Non è (...) né il campione nazionale dell'igienica moralità, né il sovvertitore, altrettanto puritano, degli schemi moralisti nazionali, come sono nel Nordamerica quasi tutti i ribelli da trent'anni a questa parte."
Una giovane e valevole scrittrice italiana, Carola Susani, ammettendo recentemente che "condividiamo con lei più di quanto non vorremmo", ha scritto che a Flannery O' Connor interessano i momenti "in cui Dio si manifesta, dove lo trovi di sicuro proprio quando ne avresti fatto a meno volentieri. Io li chiamo miracoli. Quando, cioé, dalla tua vita, organizzata come un'apologia di te, ti risvegli al timore." 
I suoi racconti scioccano il lettore afflitto da una fede che ha il gusto dello svenevole, disorientano chi si attende storie edificanti.
"Esito dello studio corretto di un romanzo dovrebbe essere la contemplazione del mistero in esso incarnato, ma si tratta di una contemplazione del mistero dell'intera opera e non in qualche proposizione o parafrasi. Non si tratta di scovare una morale esprimibile o una dichiarazione sulla vita." 
Per la O'Connor, il romanzo o il racconto di cui si possano in poche parole riassumere tema e morale sono opere morte. 
Nello straordinario scritto "La Chiesa e lo scrittore di narrativa" che qui ripresentiamo, ella afferma che per tale scrittore "tutto trova verifica nell'occhio, organo che, alla fin fine implica l'intera personalità e quanto più mondo riesca a contenere. Mons. Romano Guardini ha scritto che le radici dell'occhio sono nel cuore. Comunque sia, per il cattolico si diramano addirittura fino a quelle profondità del mistero rispetto alle quali il mondo oderno è diviso: da una parte cercando di rimuovere il mistero, mentre l'altra cerca di riscoprirlo in discipline che, dalla persona, pretendono meno della religione". Per questo motivo, prosegue la O'Connor, "lo scrittore di narrativa così scopre, se mai scoprirà qualcosa, che non spetta a lui modificare la realtà o a modellarla in favore della verità astratta. Lo scrittore imparerà, forse più velocemente del lettore, a essere umile di fronte a ciò che è. Ciò che è, è tutto quello con cui ha a che fare, il concreto è il suo mezzo."
Riprendendo una definizione di Henry James, la O'Connor conclude che la "moralità di un brano di narrativa dipende dall'entità di vita sentita  ivi compresa. Lo scrittore cattolico, nella misura in cui si conforma all'ottica della Chiesa, sentirà la vita dal punto di vista del mistero cristiano centrale: ed è per essa che, a dispetto di tutto il suo orrore, Dio ha ritenuto valesse la pena di morire". Qui vale la pena solo di accennare a quanto si svolgeva in concomitanza nella letteratura americana coeva all'autrice di Wise blood , (la saggezza del sangue, 1952), il romanzo con cui esordì raccontando di un predicatore di una Chiesa senza Cristo il quale impazzisce. Per maggiori considerazioni si veda la post-fazione al presente volume. Basti pensare che negli stessi anni in cui lei scrive, accanto a King Hemingway furoreggiano da un lato W. Faulkner, a cui per certi aspetti stilistici la O'Connor è accostabile con il suo mondo di perduti e Dos Passos con il suo mondo percorso da volontarismo ideologico.
    Il realismo della O'Connor, la sua attenzione ai "costumi" del sud, ai modi di dire, ai dialettismi, il privilegio dato a protagonisti e a figure che oggi si definiscono borderline  , e tutto quanto di lei è stato classificato come "grottesco", non sono l'esito programmatico di una scelta estetica, ma la conseguenza di una valutazione ontologica, anzi la più impressionante valutazione ontologica: "E' per essa -la vita- che Dio ha ritenuto valesse la pena di morire". Citando Conrad, autore amato, la scrittrice affermava che suo scopo era "quello di rendere la maggiore giustizia possibile all'universo visibile". Ovvero, di non dimenticare che "una storia implica sempre in maniera drammatica il mistero della personalità". 
"Tutti i romanzieri sono fondamentalmente delle persone che cercano e descrivono il reale. Ma il tipo di realismo di ciascun romanziere dipende dalla sua visione delle estensioni ultime della realtà". E cosa sono tali "estensioni ultime" ? Si tratta della libertà umana, o meglio il dramma che la attraversa.  "Se lo scrittore crede che la nostra vita sia e rimanga essenzialmente misteriosa, se considera tutti noi come esseri esistenti in un ordine creato, alle cui leggi rispondiamo liberamente, allora ciò che egli vede in superficie lo interesserà solo nella misura in cui, attraverso di esso, potrà penetrare in un'esperienza del mistero in quanto tale. (...) Per questo genere di scrittore il significato di una storia non inizia se non ad una profondità in cui le motivazioni adeguate e l'adeguata psicologia e tutte le varie determinazioni sono state esaurite. Un tale scrittore sarà interessato a quello che non comprendiamo piuttosto che a quello che comprendiamo. Sarà interessato alla possibilità piuttosto che alla probabilità." Vale a dire, che la ragione in atto  di un gesto artistico sta nell'affermare come livello ultimo della natura la categoria della possibilità, cioé quell'ambito in cui la ragione e libertà umane si incontrano con l'esistenza e l'azione del Mistero.     Tutto ciò pare un' impresa titanica, in un'epoca che, scrive ancora la O' Connor, "dubita tanto dei fatti quanto dei valori". 
Ma quanto parrebbe titanico a qualsiasi altro genere di opera, di natura filosofica, teologica e anche apologetica in senso tradizionale, si attua in modo speciale nella realizzazione artistica. Non credo che sia un caso che il rinnovamento più recente nella vita della Chiesa attraverso l'opera di grandi figure di pastori e di pensatori, nonché attraverso la vita di grandi movimenti, iniziato negli anni '49 e '50 -gli stessi a cui la O' Connor si riferisce- si sia avviato per opera di persone dotate di forte sensibilità artistica.
Del resto, insisteva il Claudel di Positions et  propositions,  il livello di senso estetico nella storia della Chiesa è pari al livello della coscienza che essa ha della propria natura e del proprio scopo. Il poeta dell'Annunzio a Maria perciò si doleva del fatto che sacerdoti i quali ogni mattina recitando il salterio incontrano la grandiosa poesia dei Salmi, propagassero poi nei gesti della catechesi e nella loro stessa eloquenza un'estetica viziata da un gusto dolciastro.
    La Chiesa, ha scritto la O'Connor, "non è una cultura". Vale a dire che essa non è un bacino da cui trarre argomenti, personaggi o idee, possibilmente buoni ed edificanti. O, ancor peggio, una sorta di recinto entro cui a certe figure o a certe esperienze non si dà accesso. "Se si arrivasse a snidare il lettore cattolico attraverso la palude di lettere al Direttore e altri luoghi dove esce per un attimo allo scoperto, ci si accorgerebbe che è più manicheo  di quanto la Chiesa non gli permetta. Separando quanto più possibile la natura e la grazia ha ridotto il soprannaturale a un pio cliché."
Per la O' Connor la Chiesa è "l'unica cosa che renderà sopportabile il mondo terribile verso il quale ci stiamo avviando", proprio in quanto annunciando l'avvenimento di Cristo che incontra la condizione di "povertà", di "anormalità" e di libertà umana, non permette la separazione tra natura e grazia. Non è questo l'aspirazione profonda di ogni gesto artistico, anzi la sua struttura ? In mezzo a tutto quel che è prevedibile,  l'elemento che fa funzionare il racconto per F. O' Connor è "l'atto libero", "l' accettazione della grazia".
    
    Tra i racconti che seguono, alcuni sono provvisti di grande forza tragica. Leggendo la O'Connor ci si accorge che esiste un tragico  cristiano, un tragico due volte disperante: la libertà umana può decretare la propria chiusura alla grazia, essere il sottilissimo ma invincibile muro contro cui anche la volontà del cielo è impotente. La grazia qui non è una faccenda di coretti angelici o di levità azzurrine: è il lampo con cui un protagonista del racconto comprende il suo destino, il suo vero  destino. Il che non coincide, naturalmente, con un lieto fine.
(Si pensi a "Un brav'uomo è difficile da trovare" e alla figura della nonna che comprende chi è  il Balordo che assale lei e la sua famiglia)
Si tratta di un tragico, per così dire, non più solo dell'uomo ma anche di Dio. Non è più solo la disperazione umana in scena, ma, devastata e imponente, c'è la disperazione divina. Quella disperazione, si badi, che può essere ribaltata solo da una forza che l'uomo non riesce nemmeno ad immaginare, e quindi nemmeno a rappresentare, e che costituisce la forza delle forze di Dio, la sua misericordia.
L'ironia che segna i racconti della O'Connor nasce come una eco di questa "forza delle forze"; non è un paliativo, non è un espediente di gradevolezza. La sua capacità di ridere (e di far ridere) nasce dalle stesse radici dello sguardo che osserva la dura e deforme vita dei suoi  personaggi. Questa convivenza di senso tragico e di ironia, del resto, caatterizzò la sua stessa esistenza. Mentre scriveva racconti "terribili", disegnava, secondo la sua primitiva vocazione, fumetti. E in certe lettere in cui parla della sua mortale malattia...

    Giustamente, Elisa Buzzi in un suo stimolante saggio sulla O'Connor di qualche anno fa, peraltro scritto in anticipo su quanti anche in Italia han dato vita a una sorta di recente "scoperta" della O'Connor, richiama il senso anagogico  che nel Medioevo veniva riconociuto nelle Scritture e che Dante stesso nella enigmatica lettera a Cangrande afferma essere il tipo di senso  da ricercare leggendo la sua Commedia. Con visione anagogica si intende una attitudine del vedere che è grado di accorgersi come in una sola immagine o in una situazione siano in gioco i diversi livelli del reale, collegati al mistero dell'esistenza divina e della nostra partecipazione ad essa. In altre parole, i livelli di significato letterale, morale, esistenziale o drammatico, e teologico convivono in un'unica immagine, ne sono la struttura. Le figure o i simboli significativi  in un racconto (un personaggio, l'auto che usa, certe azioni) sono ricchi di tutti questi livelli in gioco. Non è detto che si arrivi immediatamente a coglierli tutti, né che figure e simboli significativi  siano quelli che più facilmente si pensa lo siano. Ma è certo che la comprensione di un racconto come quelli della O'Connor si arricchisca mano a mano che se ne percepisca la visione anagogica. Il che, sospettiamo rileggendo la Epistola dantesca, vale per ogni grande opera d'arte. Al lettore occorre dunque una disponibilità a uscire dal quadro consueto della propria percezione, a lasciare che le figure e le situazioni che la visione dell'autrice gli propone "lavorino"  dentro di lui, e, infine, a sorprendere i momenti di epifania. Proprio sulla natura epifanica delle loro storie sono stati accostati Joyce e la O'Connor.
    "Io credo che esista una sola Realtà, punto e basta", scrive la O'Connor in una delle lettere presenti in questo volume. e "la realtà ultima è l'Incarnazione". La scrittrice è consapevole di scrivere in un'epoca in cui "nessuno più crede nell'Incarnazione, cioé nessuno del (...) pubblico." Lei sa bene che il suo "pubblico sono le persone che credono che Dio sia morto".
Da questa precisa coscienza nasce nella O'Connor l'insofferenza verso tutto ciò che riduce il cristianesimo ad altro dalla certezza nell'avvenimento dell'Incarnazione. In un'altra lettera qui riportata racconta di come sbottò dinanzi a chi considerava l'eucarestia "soltanto un simbolo, per quanto ben riuscito": "Beh... se è un simbolo che se ne vada pure all'inferno. ". Il valore della visione anagogica si radica in una fede ragionevole, libera e certa. 
Questi sono occhi che, secondo le già citate parole di Conrad amate dalla O'Connor, rendono la "maggiore giustizia possibile all'universo visibile". Sono occhi che hanno molto amato e che, raccontando l'esistente, ne tramandano la vita reale contro tutti i grandi spot dell'apparenza.