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Dante, Paolo e Francesca - appunti

Dante, Paolo e Francesca - appunti

Dante, Paolo e Francesca. Appunti.

Premessa


. Una storia d’amore allae porte del poema d’amore. Una storia all’inferno. E’ questa la prima storia d’amore che il fedele d’amore racconta nel suo viaggio iniziato da e per Beatrice. Come a iniziare ferito, senza riparo il viaggio. 
Sono passate le fiere, le allegorie e le colpe. Passato lo smarrimento della selva. Ma non passa Dante a se stesso. Storia scritta tremando, come un Francesca, come un Paolo. E viaggiando in fondo al tremore e all’amore come un poeta, come un Dante. L’ha scritta amando, non “riflettendo sull’amore”. 
Perdonate questi appunti brevi e strappati. Non so fare che così. Come se si potesse scrivere diversamente, quietamente di queste cose…Io non so, qui ancora mi umilio e cerco il visibilio. 

Il fatto a cui fa riferimento il canto accadde tra 1283 e 1285, prima della stesura della Vita Nova.
Compagno di battaglia di Dante a Campaldino fu Bernardino da Polenta, fratello di Francesca – dunque Dante seppe probabilmente del fattaccio direttamente dal fratello.
Era una specie di gossip che riguardava una delle tante famiglie in vista di allora. Le famiglie che han fatto l’Italia, magnifica e tremenda. Non tato diversamente da oggi.
La vita di Boccaccio ci informa peraltro di un innamoramento di Dante –che ne scrisse raccontando del dominio di Amor- durante l’esilio nell’appennino casentinese. La passione per la “gozzuta” casentinese. Una passione dunque che succede dopo aver già scritto di Paolo e Francesca.

Leggendo questo canto, come del resto accade per l’intera Commedia, si entra in un circolo eremeneutico che non concede d’essere neutrali. Qui in modo speciale “explicandum –il dato del testo- ed explicans –il lettore“, come ricorda il Raimondi di Metafora e storia che cita lo Szondi, si correlano strettamente.

La nonchalance de la salut, ovvero l’indifferenza al problema della salvezza personale, secondo quanto ci ricorda Singleton che cita Pascal su Montaigne, è la nostra caratteristica e questo ci impedisce spesso di leggere veramente Dante.
E’ la nostra “perdita” come uomini e come lettori.
Singleton invita a fare con Dante una “piena esperienza della forma” – cioè vedere e vivere tutto il significato. Solo così si dà piena “attuazione” di una forma. E ci si accorge dell’invito a una “conversione della fantasia”.

Occorre mai dimenticare che ci troviamo nel campo della allegoria dei teologi, non dell’allegoria dei poeti, per stare ancora con lo studioso americano. Ovvero il dato, la storia, il fatto mostrato significa questo e quello, se stesso e altri fatti. Non siamo di fronte a un dato letterale usato come pretesto, né a un simbolo. 


I. 

La grande storica Regine Pernoud ci ricorda che “Ci vorrebbero interi volumi per chiarire i malintesi che provengono dal fatto di attribuire ostinatamente al medioevo la mentalità che fu dei tempi classici e borghesi”.

Per soppesare l’atteggiamento medievale dinanzi al peccato di incontinenza per lussuria o passione vale la pena ricordare l’episodio di Guglielmo il maresciallo e il suo scudiero e l’incontro con il monaco fuggito con la donna. Si tratta di una storia medievale nota, ripresa dalla Pernoud. 
Guglielmo e il suo scudiero, dopo aver ascoltato il racconto della passione che ha travolto il monaco ne hanno –insieme alla riprovazione- una forte pena. Invece si avventano contro di loro nel momento in cui essi dicono che per vivere ora praticheranno l’usura. C’è dunque una condanna per l’usura più che per la lussuria, che in una certa misura consolano.

E si può ricordare che la situazione dei bastardi (figli nati da passioni extraconiugali) era molto più riconosciuta socialmente nel medioevo di quanto avvenisse nel XVII sec.



II. 

Nel Medioevo non si parlava che d’amore.
Con lo “Stile novo” di Guinizelli, chiamato padre da Dante, si inventa l’amore. Ovvero, si da forma a una voce di amore che –analogamente a quanto accadeva per i teologi che discutevano sul fatto che il modo principale per conoscere Dio (e dunque per elevarsi spiritualmente) è amarlo – vede nell’amare la donna “impossibile” il modo per incrementare la nobiltà dell’uomo. Amando ci si nobilita. Ecco il nodo morale e religioso e poetico dello stil novo, che ha legami anche con acquisizioni di natura sociale, se è vero che negli stessi anni in cui il notaio Guinizelli vive e scrive a Bologna, in quella città si narra di una affrancamento dei servi della gleba, come testimonia il “Liber paradisus”. La nobiltà dell’essere umano dipende dal fatto che ama, se ama bene, e non più dal sangue o dal censo. 
L’amore assoluto stilnovista non è un amor platonico, non è per nulla dimentico del corpo. Ma è senza pretesa di ricompensa, non dipende da una gratificazione. 
Eloisa, protagonista con il filosofo Abelardo di una celebre e reale storia di amore e conoscenza, esige un amore totalizzante, dunque non il matrimonio – puro e assoluto, gratuito. Senza ‘ricompensa’ come espresso dalla lirica cortese.
Già quando è monaca Eloisa scrive al suo ex amante e maestro anch’egli ritirato in convento, che per amore di lui, ella in passato era disposta a tutto: “Piuttosto che imperatrice con Augusto e padrona del mondo, prostituta con te.”

Nella riflessione poetica sull’amore trova spazio anche la voidise (astuzia) degli amanti.

Negli stessi anni in cui Jacopone da Todi scrive quella che Ungaretti considera la più bella poesia forse mai scritta da uomo, “Amore muto”, un poeta arabo in Cadice, Ibn Haddad, scrive una poesia simile per tema. L’uomo non parla, non chiacchiera del suo amore vero. Se non poeticamente. 

Dice un poeta medievale:
“Io ho taciuto preziosamente il nome della mia amica, 
per abitudine io non lo pronuncio e non cesso
con i miei enigmi di renderlo ancora più oscuro” 

L’amante è il servo, lo schiavo, il mameluk d’ amore…(Fedeli d’amore è il nome della “setta” a cui apparteneva anche Dante.

E infatti nel V canto Paolo non parla. E’ muto. Un mammalucco d’amore.

“Le grida del cammello sperduto sono familiari a tutti gli amanti appassionati”. E’ un detto citato ancora dalla Pernoud.

“Più si contempla, più si soffre”
Ibn Dawud

La forza di Dante è nel “giudizio”. In dialetto romagnolo, nella mia terra, questo termine è sinonimo di pensiero. nche altrove si dice “avere del giudizio” per dire di uno che usa le testa, che pensa. Ecco, la forza di Dante sta nel “giudicare”, cioè nel valutare le cose capitate, sentire, imparate. Rigiudica (ripensa) tutta la sua vita –tutti i suoi saperi, i suoi incontri, la tradizione, le novità, la scienza e la letteratura- per vedere, per comprendere cosa gli è successo incontrando Beatrice. Dove lo porta quello strano miracolo che muore e non muore. 
“Dante volge in esperienza l’esistente, lo fa divenire in quanto lo percorre”  (Auerbach ) 



III. 


Commento al canto V

Canto importante perché inizia –come detto- il suo poema d’amore, la  Commedia scritta per Beatrice, con una storia d’amore all’inferno. Di due tizi normali. Come lui.  

Virgilio spiegherà solo nell’XI come è organizzato l’Inferno.

Dante dunque qui chiede esplicitamente a Virgilio perché quella è la loro posizione di questi dannati per incontinenza nell’inferno (v 70)
Iracondi, lussuriosi, golosi, avari e prodighi, come mai son puniti fuori dalla città rovente di Dite? 
Virgilio richiama a Dante l’Etica di Artistotele (poi confermata in questo aspetto da Tommaso). Dante non ricorda forse che vi si afferma che “incontinenza /men Dio offende e men biasimo accatta?”
I peccati di incontinenza dunque hanno una soglia di pericolosità meno alta.

Prima del V canto, nel IV, c’è la sfilata di nomi della fine del Limbo. La grande storia, la bibbia etc 
Il lettore dunque arriva a questo inizio del V come “stordito” da una sfilza di celebrità. Abbiamo negli occhi la grande storia. L’arazzo del mondo.

Il suono dolce e acido del passaggio dal cerchio primaio (“nghia”) 
Il meccanico rumore e il meccanico moto di Minasse, che è come un demonio macchina. E’ quasi il primo computer – come ha scritto Andrea Brigliadori
La meccanica espletazione della condanna delle anime: “dicono odono e poi giù son volte”. Tipo catena di montaggio
E si ha un Linguaggio da capoufficio nel monito di Virgilio. “Vuolsi così colà…”


Amor –secondo Andrea Cappellano autore del grande libro d’amore del Medioevo - era “passione naturale…per la quale cosa alcuno desidera d’averla (la persona veduta o pensata) sopra ogni altra cosa”.
Amor dunque come forza – come dominio. 
Dante aderisce a questo significato quando nei suoi versi finali del Paradiso parla di “Amor che move il sole e l’altre stelle”.
Amore è innanzitutto una forza non un sentire. 

C’è una storia della parola amore (nell’uso latino il termine stava a indicare la passione, poi si  colora e arricchisce fino alla delectatio…) 
Solo il medioevo inventa l’amore trasceso – l’amore cortese. L’amore – conoscenza, secondo quanto discutevano i grandi teologi dell’epoca, da Abelardo a Guglielmo di Thierry a Bernardo. Discutendo e litigando –come accennato- su quanto amare Dio fosse il modo di conoscere Dio.
L’amore come forza di conoscenza. Sono infiniti gli affluenti di questa concezione che il cristiano Dante scolpisce nell’aria mirabile dei suoi versi. 
Conoscenze antiche, modi sciamanici, pratiche remote. Il vangelo cristiano non è una favoletta pia sovrapposta a queste forze antiche, ma una rivelazione del loro elemento di verità, una sintesi del loro desiderio. Dante il viator porta con sé tutto questo, “convertendo la fantasia”, fino alla visione: da amore ad amore.


Al v 25, è da notare il cambio dal tempo narrativo dal passato al presente. – tempo della partecipazione, uditiva/dolente. 
Va pur sempre ricordato che il racconto è del pellegrino già trasformato. C’è un doppio movimento, narrativo e partecipativo del Dante protagonista e del Dante autore. 
Il clima è fosco, dato dalla bufera, e in tale clima si staglia il grido davanti alla Ruina della morte. 
Poi il movimento delle ali, (non possiamo non richiamare il folle volo) le gru, e i “guai” 
Viene dunque la serie di nomi, ancora i famosi: da Semiramide ad Achille “che per amore al fine combatteo” –come dire che tutta la guerra di Achille si è giocata infine in un combattimento d’amore.

Giustamente la acuta e chirurgica prof.ssa Chiavacci nota che Dante ha scelto di elevare la storia di Francesca al livello epico di Elena. Sta compiendo un prodigio poetico, la creazione di un mito.

E’ da notare in questa zona del canto doppio movimento fonico.
ace – ace- ace 
vui, fui, sui, - quasi da lamento

v 70 Uditi nominar le donne antiche e i cavalier che sono presenti in queste schiere portate dal vento della passione, Dante confessa che “pietà mi giunse”. E “fui quasi smarrito” – lo smarrimento, la pietà iniziano dunque ben prima delle parole di Francesca. Una pietà generale.

v 79 “o anime affannate “– evocazione quasi da salmo, omerica – uso dell’apostrofe – poiché la poesia è fin dalle sue origini anche scongiuro, incanto. Auerbach a proposito di “Donne ch’avete intelletto d’amore” e degli inizi dei sonetti della Vita nova, nota che Dante usa spesso l’apotrope – per generare incanto, in una poesia che è dunque scongiuro, invito etc.
(v 88 “o animal”   doppio vocativo)

v 82-84 i “colombi dal disio chiamati” 
Tale immagine memorabile ha precedenti in Virgilio ma Freccero indica pure il salmo 54: “Chi mi darà ali di colomba/ così che io voli e sia in pace ?”
La metafora degli uccelli e del disio e della soddisfazione si trova anche in Boezio. 
E’ comunque amore (il disio insaziabile, inquietum, non soddisfatto da nessuna concupiscenza) che muove.
Uccelli tornano nell’incontro con Guinizelli (XXIV purg) dove si dice che Dante va dietro al “dittator”. Le sue ali “sen vanno strette” più di quelle dei stilnovisti. 
Del resto, anche al termine, “Da ciò non eran le proprie penne” è il verso erotico-volatile della fine del Paradiso.( v139, XXXIII)

v 100 Nel momento di passaggio del canto, Dante richiama “amor ch’al cor gentile…” con una citazione della precedente teoria dell’amore stilnovista (Dante la sta condannando ? la ricorda nel momento in cui sta realizzando una poetica più avanzata?)
Come quando Casella in Purgatorio canta una vecchia canzone del Convivio “Amor che nella mente mi ragiona”. Anche il I del Purgatorio -il canto dove c’è Catone- finisce con una similitudine tra anime e colombi.
Momenti di passaggio dunque con ripresa di  teoria poetica precedente. 
La Commedia è questo movimento avventuroso tra l’assodato e il nuovo. Passo che tenta. Poeta di ricerca, stilistica perché totale.


Auerbach dice che Dante è l’erede della tradizione greca (nonostante non conoscesse Omero e la tragedia) ma a differenza dei provenzali e di Guinizzelli la sua poesia è una costruzione. La capacità costruttiva è legata a una “dialettica del sentimento” (Wilanovitz) capace di “costruire un sistema logico o apparentemente logico, con le parole che indicano il sentimento, il suo sorgere, la sua sede nella psiche e i suoi effetti e magari nascondervi una segreta saggezza”  (Auerbach)
La capacità della “costruzione” è messa a tema in De Vulgari Eloquentia (nel libro secondo, citato da Auerbach, dove vengono portati ad esempio gli antichi,  a differenza di Guittone…)


v 92 Francesca vede sin dall’inizio che Dante ha pietà – del mal perverso.
v102 il modo ancor m’offende – il modo della vendetta del marito non lasciò tempo per il pentimento (aspetto giuridico spirituale notato dal Baldelli) 
Il concetto di giustificazione (come ricordato da Singleton) viene da Aristotele e Tommaso: giustizia come “moto –ovvero trasformazione- ad iustitiam” . Tensione di cambiamento (come l’intero poema). In Paolo  e Francesca come nei dannati tutti tale dinamica è bloccata. Siamo nella ripetizione, nell’identico, fuori dal movimento. Il tragico di queste anime è nel fatto che la loro scena non cambierà mai.
v 106 Caina attende – cioè l’assassino non ha fatto una cosa giusta. Non si giustifica il delitto d’onore.
v 100 /103/ 106/Amor ripetuto come soggetto della faccenda per tre volte. Come una ossessione, un dominio.

v 103- 106 l’amore non abbandona Francesca nemmeno in Inferno.
Siamo di fronte a una passione che è diventata punizione – non romantico eternarsi dell’amore.
Nulla di dolciastro da queste parti. Ma amore e durezza. Binomio strano per noi post romantici, ma forse non per molto. Mi pare di vedere i segni di una nuova avvisaglia del pensare all’amore, più simile al modo medievale che non al romantico. E non è detto per nulla che sia peggio. 
Un amore inteso nel suo dominio, nel suo potere di bloccare il cammino. Le anime qui sono trascinate da un vento, senza itinerario. Differente è l’esperienza di Dante, dove (Purg XXX 48) sente i segni “de l’antica fiamma” e allora prende coraggio per un altro passo.

Le azioni nel Canto sono modellate su quelle tipiche dell’amor cortese  (Francesca è sposata, Paolo non parla del suo amore –ne potrebbe parlare solo in poesia, non raccontandone)

v 109 Il gesto di Dante – il viso basso. 
Il grande silenzio – c’è qui come in tutta la commedia una retorica del silenzio.  Si può leggere la Commedia (e ogni poesia di valore) leggendone i silenzi.
Qui forse agisce il rapporto stabilito tra eros e linguaggio in grandi autori come in Agostino. Del resto ci troviamo dentro una grande “confessione” – delle due anime, ma di Dante stesso. Come il desiderio deve diventare trascendente anche il linguaggio deve conoscere il proprio limite e tendere al silenzio come sua natura.
Ogni gesto di Dante è un pensiero e viceversa. 
Alla confessione come genere letterario ha dedicato pagine importanti Maria Zambrano, non a caso una filosofa del poetico.

In scena ci sono tre personaggi. Lei, lui e il libro. Ovvero la lettura è un’azione non casuale. “Galeotto” viene chiamato il libro, dal nome dell’intermediario dell’amore tra Lancillotto e Ginevra. Il libro è personificato, è personaggio dunque.
v 115 – 118  martiri- sospiri 
Nel sonetto di Vita Nova Tanto gentile e tanto onesta pare”… Dante  finisce con l’immagine delle labbra di lei da cui viene uno “spirito soave pien d’amore/ che va dicendo a l’anima: sospira” 
Il sospiro era per gli antichi il segno della vita. Ne parla anche san Benedetto, la vita è un sospiro. Intendendo che la vita dipende essenzialmente da ciò che ci fa sospirare, a cui rivolgiamo il nostro sospiro.
v 124 la “prima radice” della colpa è in una lettura fatta per “diletto” – Qui si ha da parte del poeta un’ombra di condanna della letteratura romanzesca d’amore. 
Dante compatisce e condanna chi si fa dettare l’amore e i suoi modi da una letteratura senza impegno (oggi diremmo da certi programmi Tv). L’amore è cosa troppo grande per essere imparata da certi romanzi o da certe farse mediatiche.
v. 137 Galeotto dunque fu il libro. E la responsabilità si allarga a chi lo scrisse. C’è una responsabilità dell’autore.
v. 138 “quel giorno …avante” – Ecco una prova della reticenza dell’orrore –amore. Una reticenza retorica che Dante sa usare benissimo. Basti pensare al canto di Ugolino. Un silenzio che ci fa affacciare sull’indicibile. Qui un amore che si tinge di morte. E anche là, un amore paterno inabissato nella tragedia.
E’ nei silenzi che la vita e la letteratura si incontrano.

Dante sviene per la soverchia pietà

Il punto di vista di Dante personaggio (che si commuove e cade) non è il medesimo del punto di vista di Dante poeta.  I versi del canto successivo, nota Bob Hollander, sono la dimostrazione della coscienza che Dante autore ha della situazione.
Lo stesso Hollander rintraccia non del tutto a vanvera un modello  di questa situazione in Sant’agostino, nelle Confessioni, che si converte leggendo Paolo, mentre Francesca legge il libro sbagliato e ama il Paolo sbagliato.

La pietà di Dante che lo fa svenire è quella che dai suoi interlocutori si sposta verso se stesso. 
La pietà verso di sé è la cosa più difficile, lo sappiamo. Siamo ottimi e parzialissimi giudici di noi stessi. Ci condanniamo e ci assolviamo facilmente, e crudamente. Ma la pietà verso di sé è una cosa oltremisura, non cancella nessuna coscienza dell’errore e rompe la pretesa di auto-giudicarci. Dunque comporta un morire (come corpo morto), un abbandono, uno schianto di quel che sembra farci restare in piedi.