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Dove sta andando Montale?

Dove sta andando Montale?

Dove sta andando Montale?
Davide Rondoni

Morgex, Fond Sapegno 2012-


Porsi la domanda intorno al destino attuale di Montale, equivale forse a chiedersi qualcosa al destino non solo di questo autore, ma di tutta la poesia italiana? La centralità irradiante della sua presenza potrebbe farci inclinare a questa equivalenza, e tuttavia tale possibile coincidenza segnala forse uno dei limiti stessi di quella presenza e della sua forza esclusiva. Evitare tale sovrapposizione potrebbe essere paradossalmente uno dei modi con cui riconquistare a un più futuro presente proprio lui, il poeta che si trovò al centro della sua epoca, carico di onori e oneri.
Chiedersi dove va a finire Montale e la poesia ha oggi una nuova urgenza. Infatti, mentre per decenni hanno provato a convincerci che l’epoca che viviamo sarebbe stata dominata dal potere della immagine, occorre invece prender atto che mai come quest’epoca è stata, specie per le giovani generazioni, “verbale”. Persino dannatamente verbosa, in un proliferare di coazioni e di  seduzioni a usare le parole per infiniti scambi con infiniti mezzi. Tale nube gassosa di parole che circonda noi tutti è motivo in più –per chi non voglia fingere di vivere altrove- per domandarsi dove stanno andando la poesia e uno dei suoi numi ancora autorevoli. 
W.A. Auden ci avverte che ogni poeta è al tempo stesso espressione e critico della propria epoca, e Montale non sfugge a questo dilemma vivo. 
Nel volume che raccoglie i testi delle celebrazioni genovesi per il centaneraio della nascita del poeta, intitolato significativamente “Il secolo di Montale” (il Mulino, 1996) sono presenti due interventi di poeti della generazione a lui successiva –due dei massimamente riconosciuti, Giudici e Luzi. Entrambi, con motivi diversi, colgono l’occasione per darci la misura della loro  In particolare, il discorso finale di Luzi entra con acutezza mirabile a toccare tutta la serie di motivi per i quali il poeta fiorentino sentiva distante dalla sua esperienza la voce del grande predecessore. 
Poco fa, la professoressa Bettarini, ha usato una espressione: “precocemente classico”, che ritroviamo come osservazione iniziale in Luzi. che vede, con accento più caustico, “una classicità precoce” nell’autore che non ebbe pari come onori e udienza ricevuti in vita, se non forse Manzoni. Ciò dipese, secondo Luzi, dal suo “accordo” con la mentalità della classe dominante in Italia –la borghesia- che si riconobbe nel suo “inappagamento ontologico” (finissima espressione) contento però di espriemrsi in “ornatus” e “artisticità”. 
Il discorso sarebbe lungo e vale la pena andare a riprendere quelle pagine luziane, dove da ribaldo e acuto fiorentino il poeta della vita come evento sempre principiante entra nei meandri di un’opera che oltre a garantire con i suoi scarti di ironia una soddisfazione a una persistente esigenza di “comico” nella nostra letteratura e, devota alla tradzione come lo si è al melodramma, offre la soddisfazione di una “stasi estetizzante”, e di una riduzione della poesia ad artisticità. Ma non è questo il luogo per compiere un fecondo viaggio nella ricognizione e negli a fondi luziani. 
Né mi soffermo a valutare che significato metaforico c’era nel racconto che il mio maestro fiorentino mi fece di un incontro al Viesseux con il più anziano poeta delle Occasioni: una luce verde, proveniente da riflesso di un coprilampada, ne invadeva una parte del volto. Un incontro mancato con una presenza spettrale ? 
Né c’è il tempo qui di indagare se non di registrare il fatto che Montale non dedicò un rigo alla poesia di Luzi. Da grande lupo dotato di ottimo fiuto aveva compreso che si aggirava da quelle parti qualcosa che non era compatibile né con il suo falsetto né con il borbottio. Naturalmente, occorrerebbe da parte di chi ha migliori e più affilati strumenti dei miei nuove e sfacciate indagini su questi nodi.
Si può registrare però che Luzi e Giudici scesero nel felice agone di quelle celebrazioni per regolare fino in fondo i conti con Montale. E’ Giudici a usare questa espressione: i conti fino in fondo, ammettendo lui stesso –che riconosce tutto il debito e la frequentazione giovanile con il poeta di via Bigli- che fare tali conti equivale con il prendere distanza e “andare oltre Montale” come volle titolare il suo intervento. Elencando i nomi delle 5 generazioni che vissero nella epoca di Montale e sotto il suo sguardo, Giudici ci da un panorama della migliore poesia italiana del secondo Novecento. Ma quel panorama è inquieto nei suoi rapporti con il nume tutelare. 
Se di Luzi e di Giudici abbiamo detto, va aggiunto che un terzo poeta –oggi sempre più crescente nella considerazione- non dedica righe alla poesia di Montale. Dico Giorgio Caproni. 
Infine,  ieri mi trovavo a Roma a presentare un Oscar Mondadori antologico da me curato sulla poesia di Testori. Un milanesissimo scrittore che nel ’65 –lo stesso anno degli strumenti umani di Sereni e di Nel magma di Luzi- si riaffacciava dopo lungo silenzio seguito a osannate prove di narrativa con una poesia che lasciò, e lascia, esterreffatti: “I trionfi.” Ci fu chi notò subito la diversità assoluta di quella voce da quanto veniva facendosi nell’intero panorama italiano. Voce ancora ignobilmente esclusa dai regesti e dalle antologie del secondo Novecento (e bisognerà pur ridisegnarlo più compiutamente questa parte di secolo…). E Testori racconatava e annotò che un Moscone ne impedì l’uscita di una recensione sul Corriere della Sera. Montale aveva scorto un altro antagonista ? 
Le opposizioni sono uno dei modi con cui il nostro essere diviene più se stesso. E dunque registrare le distanze che furono avvertite da non pochi e non insignificanti poeti delle generazioni successive rispetto al magistero ancor oggi qui ripreso di Montale significa dargli una chance per essere davvero se stesso. Insomma, è uno dei modi e forse il più fertile e vivo per riconquistare ancora Montale, essere pronti al suo dono. 
Ho assistito con tenerezza al graziosissimo passaggio in cui la prof.ssa Bettarini ha qui                                                                                                                        commentato con acume esegetico alcuni versi dedicati dal poeta al critico onorato che le stava seduto poco fa a fianco. Cesare Segre premiava Rosanna Bettarini e lei ha spiegato un Montale dedicato a Segre. Graziossima scena in cui si vede come Montale è stato anche una lingua comune, una lingua di amicizia –se pur sempre letteraria- per chi di una o due generazioni precedenti alla mia ne abbia condiviso il magistero e il tono.
La nostra più giovane generazione ha di recente discusso in varie sedi che rapporto tenere con Montale. Siamo di certo più “liberi” di quanto fosse la genia dei nomi fin qui fatti.  E di certo a lui è capitato –come mi disse seduto al tinello di casa sua l’amico Franco Loi- di diventare per i suoi successori una specie di quel che fu D’Annunzio per lui. E ancora per noi, certo, Montale fa un po’ un effetto D’Annunzio. Come di un discorso chiuso in sé e perfetto, essendo del resto un poeta molto bile nella propria regia. 
In questo senso non va trascurato l’effetto deleterio che sul poeta produce l’essere estremo lembo di una specie di mostruosità chiamata “programma scolastico” che sta mietendo vittime infinite tra i giovani, ai quali stiamo sottraendo il gusto vero della poesia e dell’arte, grazie a un sistema scolastico fallimentare. E’ colpa grave, specie di un mondo accademico inerte di fronte a tale urgenza, assistere senza cercare con forza di cambiare qualcosa sui metodi con cui si compie una specie di strage dell’arte e della letteratura nella nostra scuola. Colpa ancor più grave se si considera da un lato che l’Italia non ha altre materie prime da trasmettere in eredità, e dall’altro che se a un ragazzo sottrai la possibilità e il gusto profondo di confrontarsi con Dante o Leopadi o Montale sulle grandi questioni dell’amore, del morire, del dolore, con chi lo farà ? con l’ultima starlette televisiva ? con i marpioni dei programmi d’intrattenimento giovanile ? 
Un autorevole critico come T. Todorov ha lanciato il suo non autoassolutorio allarme (“La letteratura in pericolo” Garzanti, 2010) e io ho affiancato le mie proposte in “Contro la letteratura” (Il Saggiatore, 2011). C’è qualcosa di sinistro nel fatto che si sia preteso con metodi errati di produrre dei quindicenni mini-critici letterari per ottenere che di costoro la stragrande maggioranza non trovi attrattiva nella letteratura come la incontra a scuola. Le statistiche e l’esperienza di molti non lasciano più scampo alla pigrizia. Molto c’è da fare e credo che anche autorevolissimi luoghi di elaborazione culturale e accademica come questo dedicato a Sapegno possano, debbano dare il loro contributo.
Dunque alla precoce classicità si è aggiunto l’effetto glassatura e impolveramento che la scuola ottiene grazie ai suoi metodi erranti e ai suoi tomi scagliati nei denti dei ragazzi, così strapieni di eserciziari da essere un primo incontro infelice con il libro e il suo mondo. Eppure Montale non precipita, o non ancora, nei reliquiari della storia della letteratura. Però –e qui sta la mia proposta di stamattina- occorre gridarlo.
Sì, letteralmente, fisicamente e scandalosamente gridarlo. Nel senso vero e proprio (se ne fece una interessante esperienza teatrale anni fa con alcuni amici) e nel senso esistenziale di far corrispondere ai suoi borbottii e momenti di mare roboante trattenuto le urgenze nostre esistenziali e noseologiche. Così che grazie al nostro rigridare Montale la sua poesia possa contribuire –pur finita l’episteme che volle rappresentare e che ha fatto luogo alla presente età del risentimento e della solitudine intontita di comunicazione- a ricondurre la poesia al suo proprium umano: ovvero l’essere lei, la poesia, una tensione alla conoscenza del reale. 
Troppe volte infatti nella nostra cultura domina una idea della letteratura come palestra dei sentimenti, come spazio per l’analisi psicologica o come altra via per intenzioni morali o politiche. Basta leggere la lista che chiamano classifica per vedere cosa questa cultura dominante chiama a rappresentare la parola letteratura. Era Baudelaire –autore a cui Montale dice d’essere in scia insieme a Browning- ad avvertirci di non volere per amico un autore che riceva premi dallo Stato in nome della morale. Ed ecco che invece quel genere di scrittore campeggia sui nostri schermi, parla alle piazze, è oggetto di faraonici investimenti editoriali quando anche il cosiddetto mercato non lo richieda. 
Dunque Montale nuovamente gridato e visto e anche riconosciuto nelle distanze che hanno creato nei suoi confronti alcune delle successive voci della nostra meravigliosa tradizione poetica, può essere un’arma (ecco una parola che di certo non pensava di diventare!) perché la poesia sia vissuta come una delle più entusiasmanti e profonde avventura della conoscenza. Del resto, lo stesso anti-montale del nostro secondo novecento, Mario Lzi, in una poesia mai confluita in raccolta titolata “Versi per tenere allegro Montale” finiva con un brindisi e un “urrah!” al poeta genovese, dopo aver ricordato celiando con rime interne che non si è solo “poeti”, per il “gran sollazzo del nostro belzebù Sanguinati” ma si è  anche “anime”.