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La poesia di Pascoli continua a vivere

La poesia di Pascoli continua a vivere

La poesia di Pascoli continua a vivere nonostante la scuola l’abbia fatto diventare da tempo “il Pascoli”. Si, insomma, la sua poesia è più forte di  quell’articolo che la burocrazia dei programmi scolastici e il medesimo gergo banal-critico della scuola mette davanti agli autori (“il Manzoni, il Leopardi, il Tasso…”) segnando così la loro definitiva consacrazione e di fatto la loro desolante sconsacrazione. Si contano sulle dita di una mano i poeti e i romanzieri che hanno ricevuto una sagomatura ufficiale così forte e una diffusione obbligatoria così vasta nella storia del nostro Paese. Il Pascoli lo si incontra a scuola. E poi come quasi tutta la poesia incontrata lì secondo il metodo orrendo dell’obbligo e dello specialismo letterario, lo si abbandona. Quanti degli italiani che hanno sorbito come fossero sbobba da caserma dei veri capolavori come X Agosto, Arano, o La cavallina storna ci sono pià tornati su ? Quando i nostri burocrati o politici (ormai fa differenza?) metterano mano a una riforma che salvi il nostro patrimonio poetico esondandolo dalla scuola ?
Eppure Pascoli ci appare sempre più magnetico. Più vorticoso. E sfuggente. E si impone, sempre più grande, la figura di Giovanni Pascoli a cent’anni dalla morte. Se togliamo l’articolo a “Il Pascoli” ci accorgiamo che questo signore bizzarro e oscuro, amante delle cose semplici e d’affetti complessi, con una mente labirintica e musaica, enciclopedica e dotta è stato un artista tra i più grandi della modernità. E che questo signore un po’ romagnolo e un po’ toscano, di tortuoso e ambiguo percorso culturale e politico (fu socialista, massone e patriottico imperialista) ha fatto cose stregonesche e preziose con l’arte più povera che ci sia, quella delle parole.
In lui ha avuto luogo una specie di festa e funerale della poesia. Una forza che glorifica e annulla la lingua nel momento in cui la resuscita continuamente –la sua “lingua morta” di poesia, così postuma e fervida. Ha anticipato e reso vacue tante sperimentazioni successive. Come l’altro suo avverso sodale, vicinissimo e lontanissimo D’Annunzio. Si oppongono, ma sono su due versanti della stessa discesa tragica. La tragedia dell’io decadente, dell’io che cede, non ha appigli, non ha “tu” a cui veramente affidarsi. Né in cielo né in terra. L’uno rattratto negli affetti, come se il lutto avesse inamidato il cuore. L’altro esploso in mille frammenti, galassia impazzita di movimenti affettivi e sensuali senza oggetto reale. Entrambi assorbiti in un assoluto monachesimo della parola. Non a caso D’Annunzio racconta con devozione una sua visita (e regolamento di conti) con il più anziano poeta delle Myricae. 
L’uomo monade, come stavano predicando negli stessi anni Nietszche e altri. L’io pieno di affetti e di nessun legame si riempie di tutti i suoni, di sensazioni, si fa l’anima “mostruosa” come aveva ben prima indicato Rimbaud, ragazzo padre della poesia contemporanea, mistico allo stato selvaggio. Pascoli e D’Annunzio sono due grandi tragici alle porte del Novecento italiano. Poeti preziosi e meravigliosi dell’ io che decade, che perde ogni energia mentre pur si fa circondare e traversare d’ogni sonora gloria, d’ogni finezza, acceso di febbre percettiva e risonante di prodigi verbali. Se il Vate bruciò fino alla fosforescenza la lingua e se stesso usando i materiali e le occasioni dell’esistenza e del gusto dell’alta borghesia (gusto spesso pure mediocre – ma che importa, quegli smalti, le decorazioni, roba che ardeva bene…), l’altro, non meno tragico maestro di preziosità, usò per la sua partitura e la sua pira i materiali bucolici e minimi della ferialità, saperi antichi e nuovi e le campiture infinite del latino. 
Con puntiglio da professore di liceo o di erudito di campagna, Pascoli colleziona nel nido vuoto della sua poesia un mondo che va da nomi dimenticati d’ornitologo agli scontri tra le galassie studiate e copiate dal Flammarion, dai proverbi romagnoli alle incursioni dell’inglese, nuova lingua d’impero nel tessuto italico. 
E’ un poeta monumentale di passaggio come uno di quegli archi possenti sotto cui abbassarsi. E da lasciarsi alle spalle, qualora se ne abbia la forza che proviene solo da una altrettanto violenta combustione e dedizione artistica senza protezione. Pascoli ormai è finalmente uscito dalle cantine del patetico in cui una critica scolastica voleva relegarlo per paura delle ombre che nell’ opera si agitano. Poeta del dettaglio e di cosmogonie, curvo sulle Myricae e attonito spettatore d’un misterioso nulla universale, Pascoli racconta di aver assunto la sua attitudine poetica in certe sere in cui la madre, vedova per l’omicidio del marito, stava davanti a casa a fissare chissà cosa all’orizzonte. Uno sguardo vedovo, dunque. E cosa è uno sguardo del genere ? E’ pieno di una presenza e di una assenza contemporaneamente. Sguardo che vede l’assente.  Fissa chissà cosa. Avverte la presenza piangendone l’assenza. Uno sguardo “doppio” diceva Leopardi, supremo fanciullino, secondo il poeta romagnolo. Ma in Pascoli “doppio” per una divorante compresenza, o co-assenza. 
Lo sguardo delirante non è uno stato eccezionale, ma normale. L’orfanità è diventata poesia. L’aveva anticipato il ragazzo padre che diceva di non aver “antecedenti in nessun punto della storia di Francia”. Al massimo grado lo sguardo vedovo, la sperdutezza dell’orfano entrano nella nostra poesia con Myricae, i Canti di Castelvecchio e i Primi e i Nuovi poemetti.  Non si tratta naturalmente di leggere l’opera con chiavi biografiche. Tale metodo pieno di guasti lo lasciamo a maestrini che di fronte alla forza e allo sgomento di certi versi non sanno cosa dire e si rifugiano nelle pagine di orrendi sussidiari pieni di note biogtafiche o presunte letture strutturali dei testi, pur di non dover aprire l’anima e le loro ferite di fronte ai ragazzi. Come se quei ragazzi stessero nei banchi aspettando un sapere da sussidiario…
Ma si legga ad esempio in piedi una poesia –“La cavallina storna”- che veniva fatta imparare a memoria, e sì a memoria pure la si pronunci, sillabandola quasi, sentendone crescere la forza quasi d’espressionismo tedesco, di selvaggio dolore e di composta cromatura, con quella testa magra di cavalla che pare un livido emblema medievale incastonato in un dettato novecentesco. Da dove viene questa prodigiosa capacità compositiva ? Facile dire: dai classici, dallo studio serrato e dalla imitazione che lo condusse a comporre in latino poemi ammirevoli. Ma non si tratta solo di questo. Non basta. 
In Pascoli avviene una reazione chimica complessa e prodigiosa che di certo viene dall’aver lui ragazzino acceso una miccia.  Insomma, vale la pena forse riflettere su fatto che il giovane Pascoli non è per nulla scontato che decidesse di mettere in gioco nella poesia l’enorme buio capitale di dolore e attenzione che aveva accumulato in pochi anni, Specialmente di fronte a questi classici, noi diamo per scontato, quasi come inevitabile, il fatto che siano poeti. E’ il loro destino, c’è pure l’artciolo davanti. 
Ma io invece tremo al pensiero di quando il giovane ragazzetto romagnolo orfano, sensibilissimo e dotato, scrivendo i primi componimenti e avvertendo i primi morsi e i primi abbandoni della poesia, lui che poteva essere un bravo professore e un pacioso erudito, decise di giocarsi tutto nella poesia. “No, non voglio che sian morti” grida dei suoi genitori nella prefazione ai Canti di Castelvecchio. E nessuna altra parola o volume o studio poteva proseguire quel grido se non lo struggimento di una voce poetica irriducibile a cultura o a letteratura. Ora quel grido di ragazzo si dirama come una corrente elettrica in una opera di poesia vasta, un grido che diventa racconto, epica, verticalità di linguaggio e sperdimento di visione. 
In Pascoli la corrispondenza tra quanto avviene nella vita e quanto accade nella poesia è evidente. E’ l’opera –basta leggere- a suggerirci come nella infinita vastità dei mondi, colti in scala minima o in vasti abissi dal poeta, la voce dell’uomo è solitaria, smarrita. Orfana.
La sua mente fu come l’uomo della poesia “Il libro” che nell’ombra cerca e cerca il vero voltando pagine e pagine. 
Pochi sanno come Pascoli darci la misura della nostra sperduta piccolezza.  Della vastità della vita che ci sovrasta. L’uomo sulla scena che Pascoli ritrae tra cardellini, rondini, forasiepe e tra galassie, bufere e collassi del sole, è un uomo solo. Non ha un “tu” a cui rivolgersi mai, se non fragile, passeggero, e si tratta d’una compagnia malinconica e paurosa tra orfani. Ebbe un senso del mistero violentissimo. Come si sente in questo poema, “Il ciocco”, uno dei più belli della poesia italiana di ogni tempo, e quasi mai offerto a scuola. Ecco alcuni lunghi brani della seconda parte.



Ed il ciocco arse, e fu bevuto il vino

arzillo, tutto. Io salutai la veglia

cupo ronzante, e me ne andai: non solo:

m'accompagnava lo Zi Meo salcigno.

Era novembre. Già dormiva ognuno,

sopra le nuove spoglie di granturco.

Non c'era un lume. Ma brillava il cielo

d'un infinito riscintillamento.

E la Terra fuggiva in una corsa

vertiginosa per la molle strada,

e rotolava tutta in sè rattratta

per le puntura dell'eterno assillo.

E rotolando per fuggir lo strale

d'acuto fuoco che le ruma in cuore,

ella esalava per lo spazio freddo

ansimando il suo grave alito azzurro.

Così, nel denso fiato della corsa

ella vedeva l'iridi degli astri

sguazzare, e nella cava ombra del Cosmo

ella vedeva brividi da squamme

verdi di draghi, e svincoli da fruste

rosse d'aurighi, e lampi dalle freccie

de' sagittari, e sprazzi dalle gemme

delle corone, e guizzi dalle corde

delle auree lire; e gli occhi dei leoni

vigili e i sonnolenti occhi dell'orse.

Noi scambiavamo rade le ginocchia

sotto le stelle. Ad ogni nostro passo

trenta miglia la terra era trascorsa,

coi duri monti e le maree sonore.

(…)
.



Tempo sarà che tu, Terra, percossa

dall'urto d'una vagabonda mole,

divampi come una meteora rossa;

e in te scompaia, in te mutata in Sole,

morte con vita, come arde e scompare

la carta scritta con le sue parole.

Ma forse allora ondeggerà nel Mare

del nettare l'azzurra acqua, e la vita

verzicherà su l'Appennin lunare.

La vecchia tomba rivivrà, fiorita

di ninfèe grandi, e più di noi sereno

vedrà la luce il primo Selenita.

Poi, la placida notte, quando il Seno

dell'iridi ed il Lago alto e selvaggio

dei sogni trema sotto il Sol terreno;

errerà forse, in quell'eremitaggio

del Cosmo, alcuno in cerca del mistero;

e nello spettro ammirerà d'un raggio

la traccia ignita dell'uman pensiero.

 

 

Il pensiero umano, ecco la traccia che il poeta vorrebbe restasse

nell’universo come segno del nostro passaggio. Il pensiero, luce

dell’uomo, secondo una visione non religiosa ma strenuamente

attenta al rapporto tra limite e infinito, tra universale e

particolare. Una religiosità laica, si potrebbe dire usando parole

insensate quando accostate. La poesia è sempre fenomeno

religioso, ovvero teso a rintracciare quel legame che solo l’uomo

sente per quanto oscuramente tra le cose e il tutto.

Il poema prosegue con un crescendo veggente.

 

O Sole, eterno tu non sei—nè solo!—

Anima nostra! fanciulletto mesto!

nostro buono malato fanciulletto,

che non t'addormi, s'altri non è desto!

felice, se vicina al bianco letto

s'indugia la tua madre che conduce

la tua manina dalla fronte al petto;

contento almeno, se per te traluce

l'uscio da canto, e tu senti il respiro

uguale della madre tua che cuce;

il respiro o il sospiro; anche il sospiro;

o almeno che tu oda uno in faccende

per casa, o almeno per le strade a giro;

o veda almeno un lume che s'accende

da lungi, e senta un suono di campane

che lento ascende e che dal cielo pende;

almeno un lume, e l'uggiolìo d'un cane:

un fioco lume, un debole uggiolìo:

un lumicino . . . Sirio: occhio del Cane

che veglia sopra il limitar di Dio!

Mi si perdoni la lunga citazione, ma questo testo sarebbe da gridare.
Solo così potremmo avere lontanamente sentore dell’abisso d’animo di Pascoli. Altro che poeta delle piccole cose, o meglio sì, delle minime, dei nomignoli e dei mile nomi di razze limitatissime di esseri e passeri, ma in quanto poeta delle cose vastissime, di questa visione solitaria del grande mistero dell’universo.
Pochi come lui hanno dato versi  così musici e sperduti. Leggiamoli ancora fino alla fine, sorprendente e illuminante nel corto circuito dell’ultima immagine.



Ma se al fine dei tempi entra il silenzio ?

se tutto nel silenzio entra? la stella

della rugiada e l'astro dell'assenzio?

Atair, Algol? se, dopo la procella

dell'Universo, lenta cade e i Soli

la neve della Eternità cancella?

che poseranno senza mai più voli

nè mai più urti nè mai più faville,

fermi per sempre ed in eterno soli!

Una cripta di morti astri, di mille

fossili mondi, ove non più risuoni

nè un appartato gocciolìo di stille;

non fumi più di tanti milioni

d'esseri, un fiato; non rimanga un moto,

delle infinite costellazioni!

Un sepolcreto in cui da sè remoto

dorma il gran Tutto, e dalle larghe porte

non entri un sogno ad aleggiar nel vuoto

sonno di ciò che fu!—Questa è la morte!—

Questa, la morte! questa sol, la tomba

se già l'ignoto Spirito non piova

con un gran tuono, con una gran romba;

e forse le macerie anco sommuova,

e batta a Vega Aldebaran che forse

dian, le due selci, la scintilla nuova;

e prenda in mano, e getti alle lor corse,

sotto una nuova lampada polare,

altri Cigni, altri Aurighi, altre Grand'Orse;

e li getti a cozzare, a naufragare,

a seminare dei rottami sparsi

del lor naufragio il loro etereo mare;

e li getti a impietrarsi e consumarsi,

fermi i lunghi millenni de' millenni

nell'impietrarsi, ed in un attimo arsi;

all'infinito lor volo li impenni,

anzi no, li abbandoni all'infinita

loro caduta: a rimorir perenni:

alla vita alla vita, anzi: alla vita!



La potenza di questi ultimi versi appena letti mette i brividi. Il “rimorir perenni” dei secoli e millenni…Qui Pascoli è grandissimo poeta. Inventa e crea in un crescendo musaico e visionario che hanno pochi luoghi pari nella storia della nostra poesia. Dante, certo, qualche punto di Leopardi. E poco altro.

 

Io mi rivolgo al segno del Leone

dond'arde il fuoco in che si muta un astro,

alle Pleiadi, ai Carri, alle Corone,

indifferenti al tacito disastro;

ai tanti Soli, ai Soli bianchi, ai rossi

Soli, lucenti appena come crune,

ai lor pianeti, ignoti a noi, ma scossi

dalla misterïosa ansia comune;

a voi, a voi, girovaghe Comete

che sapete le vie del ciel profondo;

o Nebulose oscure, a voi, che siete

granai del cielo, ogni cui grano è un mondo;

di là di voi, di là del firmamento,

di là del più lontano ultimo Sole;

io grido il lungo fievole lamento

d'un fanciulletto che non può, non vuole

dormire! di questa anima fanciulla

che non ci vuole, non ci sa morire!

che chiuder gli occhi, e non veder più nulla,

vuole sotto il chiaror dell'avvenire!

morire, sì; ma che si viva ancora

intorno al suo gran sonno, al suo profondo

oblìo; per sempre, ov'ella visseun'ora;

nella sua casa, nel suo dolce mondo:

anche, se questa Terra arsa, distrutto

questo Sole, dall'ultimo sfacelo

un astro nuovo emerga, uno, tra tutto

il polverìo del nostro vecchio cielo.


Così pensavo; e lo Zi Meo guardando

ciò ch'io guardava, mormorò tranquillo:

«Stellato fisso: domattina piove».

Era andato alle porche il suo pensiero.

Bene egli aveva sementato il grano

nella polvere, all'aspro; e san Martino

avea tenuta per più dì la pioggia

per non scoprire e portar via la seme.

Ma era già durata assai la state

di san Martino, e facea bono l'acqua.

E lo Zi Meo, sicuro di svegliarsi

domani al rombo d'una grande acquata,

era contento, e andava a riposare,

parlando di Chioccetta e di Mercanti,

sopra le nuove spoglie di granturco,

la cara vita cui nutrisce il pane.


La fine del mondo e la saggezza della vita che continua. Una visione della fine che coincide con una visione del proseguimento Sguardo doppio, ancora. Morte in cui vita prosegue. Per questo Pascoli amò Dante che dalla morte trasse vita, come dice nei suoi saggi. In quel mistero Pascoli non alza mai una domanda, una preghiera. O s’accenna confusa in un ricadere di commiserazione, di compatimento. 
A cent’anni dalla morte si son celebrati convegni, letture, iniziative anche meno barbose. E certo Pascoli merita che accanto ai doverosi nuovi sondaggi specialisti ovunque in Italia ci si alzi in piedi per onorarlo, ascoltandone la voce, la meraviglia, la così vitale ferita.