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Destinazione del sangue

Narrativa-Teatro

Destinazione del sangue

Destinazione del sangue


Se questa scena passasse

Quando dal finestrino del vagone
Paolo vede pianeti e torri negli incendi

e vede uomini che si rubano l’aria
             quando vede
             la rosa
delle nubi sputare ferro
                                piange il suo pianto secco
di ebreo convertito, e tutti i suoi nervi
implorano qualcosa –
              quando dal treno infreddolito
con occhi stretti nel vetro rigato
dove pende una stella
vede il ragazzetto solo sugli altipiani
a pascolare la magrezza,
la fila per le fabbriche, i cinema
scrive nel suo cuore con la punta di dura felicità
le parole da mandare
ai pochi della comunità.
       La speranza
non diventi retorica
e la fede un gingillo tra le dita,
      vanità.


***


Nel vagone ci sono ragazzi
innocenti come il niente,
      non sanno
niente, lanciano
bouquet di risate, domande giavellotti
e di chiacchiere in ogni direzione
ma non sulla destinazione del sangue, ed è
vario di niente il loro dialetto, spogliati
da secolari e improvvise vendemmie.
                    Bellissimi
non sanno niente di Dio, di Gesù solo
mezze bestemmie.
                 Paolo guarda e non guarda.
Le lastre d’oro del tempio
gli appaiono in un lampo, i bianchi
occhi dei sacerdoti, la folla della sua
Gerusalemme,
      il niente
che soffia sulle pietre…
                   In quali vetri o ripide
piogge dei giorni, anni
si riflettono per un istante,
li cerca con le dita, vorrebbe
fermarli nella visione che trema,
ultima luce scema…
Fissa lungo le strade le reti verdi di metallo coperte di gomma
quei disegni all’infinito di croci, quadretti, reti,
croci ancora, minuscoli, correnti…





***


Il viaggio è lungo, viene il sonno che teme.
Vede l’oscillante statua
con la gran croce sulle spalle
entrare così sola, così sola
in una enorme chiesa tra la folla.
          Era Nicaragua,
Asia, o cosa…Paolo vola.
Può venire il nemico amaranto,  la bocca bavosa,
il tremare del petto, della testa.
La spina nella carne, l’artiglio, la viola furiosa.
Va il treno - sereno e tempesta.
Decide di non dormire, fissa il fiore inverso
dell’impotenza convertita in forza.
Rompe un pacchetto di craeckers e ne mangia
frammenti.
Il treno lo porta dopo mille venti
fino al viso di ramarro dell’imperatore –
colpo di genio o di umiltà
l’accusa che lo riguarda
riguarda tutti
perché riguarda l’amore.
Le briciole gli cadono sui calzoni, fa freddo
ingigantiscono nei tunnel le ombre dei vagoni…


***


Vede i filari, la terra lavorata,
    è bella
nel tormento
l’opera del mondo, l’opera di cosa,
                              che rosa
grida recisa  
o fiorisce nel profondo.
Si fa cenere e amore,
             fuoco, fossili stelle, fuoco
di sorriso sempre ulteriore.

***


Poi sente tutto farsi teso.
       Paolo vede
le mani aperte degli alberi
le grida mute dei precipizi, la perfezione
inquieta dei puledri e dei puledri
d’uomo.
i volti dei ragazzi che svaniscono
d’improvviso nel buio dei tunnel.
Sa che tutto è bellezza e travaglio –

ma se questa scena passasse...
se dopo la galleria
la luce dal mare esplodesse…



Una dura felicità

Materia, corpo…Fiato. Vita,
dice o non gli esce in quella luce rocciosa
e azzurra.
Corpo, spirito, oscuro
spartito
del fiato
carne, legame
mai evitato, nodo, sospensione.
        Spirito, movimento
che dai vita, la tensione
del corpo a vivere
secondo la vita infinita,
corpo, legame, dono del
fiato
dal primo giorno o notte o cos’era
quando Dio ha lasciato su un’altra bocca
il suo respiro
come di un amante si cerca nei baci
il fiato.
Corpo, vuoto, durata bianca
delle ossa, cuore, fossa
tutto da rammagliare, slogato,
lo spirito è il filo
del fiato.
       Fiato, fiato…

Corre il treno, rompe
le curve, i monti, i precipizi
sul mare.
Gli altri passeggeri vedono Paolo
sorridere lieve, tremare.






***


Le stazioni di provincia, i bar tabacchi
dove ci si sente nessuno.

E vivere è come vivere e morire.

“Non sono io che vivo
ma tu che vivi in me” lo fulmina alla cassa,
lo arde questo non pensiero,
lo trapassa
il suo meditato e ferito amore.

Sei con me, Gesù ? supplica in lui
qualcosa mentre paga il caffè
e il barista lo guarda pensando a cosa
può avere quell’uomo,
    che sembra in sé
e fuori di sé, avvolto
e bruciante in una dura
felicità…




Fantasmi o che cosa nel mondo

I treni nella notte si perdono, gli uomini
nella notte si perdono, i treni
     svaniscono,
cercano tra le montagne
o lungo le rive dei mari, e che segni
scrivono nelle migrazioni, desideri
desideri, movimenti di popoli,
       sentieri
e deserti,
                cuori binari



***


Fratelli, dice, o forse
nei barbagli del sonno mormora
fratelli di Corinto,
        nei lampi
di luce nei vagoni dalle gole e dai boschi
o come fosse ancora sul mare
verso Salonicco,
     amici, ripete
quasi supplicando, e svaniscono
quei volti, o dove saranno andati
quei sorrisi, gli abbracci e amici,
amici…

Lo guardano nello scompartimento,
dicono: com’è solo quest’uomo
che ha gli occhi tristi ma in fondo
pieni di entusiasmi,
è solo ma ha molti con lui,
          fantasmi,
o che cosa nel mondo ?



***


A Settebagni,
o poco prima
che appaia la farfalla di marmo, la incantata
ragna, la dolce serpe addormentata,
    la regina
di oblio, luci e violenza,
Paolo si alza a guardare, viene mattina,
con il suo
vecchio nome addosso, e Gerusalemme
in corpo come un sogno
un vuoto nella pancia, l’alleanza
di fuoco e pietre cieche nel sole, mentre qui
in una luce bianca di fiacco polmone
dormono i ragazzi buttati
uno sull’altro, la bocca tra impasto
e impazienza.
        Arriva a Termini
o Tiburtina ? chiede uno, aperto
un poco l’occhio
di prima torbida smania
sguardo gelatina



La carità deve bruciare ancora

Poi si entra in lei e Paolo
entra in lei,
       gran Termini
vetrata alta bianca, semideserta,
uomini che si cancellano, sacchetti, mucchi
di stracci, piccoli drappelli, luce
che piove dall’alba, vuoto
sbalordito come quello del tempio.
                      Termini
è l’atrio dei primi gesti muti, suppliche, giorni
ripetuti nell’aria,
     dolce colosso,
bianca fauce e dita protese
dei binari, filattéri nella veste scucita,
                              termini demente
urlo calcificato di un dio partito, e mai
sceso a comprare da fumare,
               solitudini discese
sulle scale mobili, e
annunci, réclame, video accesi al niente…


***


Era qui che doveva arrivare.
   Guarda la grande
città orientale e occidentale,
la brulicante tana
del dio imperatore,
era qui nella rosa lontana
che doveva, nella splendida e vociante,
nella ferita incurabile
del mondo.    
            Esce con la sua poca valigia
il cittadino romano e non romano
dovendo morire per Roma e non per Roma.
Era qui che doveva.
Perché il sangue deve sciogliere la tensione
e l’argento greco, l’eleganza latina
e la verticale tenerezza ebrea.
E del sangue dovranno essere imbevute
l’erbetta dolce e la terra dura delle parole.

La carità deve bruciare ancora e diventare città.

Paolo ha mille anni e mille addosso
guarda il cielo aperto, in su
il volo a picco
e a precipizio degli stormi –

cadrà nel nero fosso dell’oblio
il nome di Gesù ?
o si passerà
di mano in mano, di bocca
in bocca nelle case, nei baci, nei bar
il suo viso colpito e dolce,
il pane del racconto
della vita che no,
      non muore più ?